La svolta linguistica
Noi siamo nel mondo, parti di qualcosa che, spesso, sfugge alla nostra stessa comprensione. Forse questa è la caratteristica della modernità a cui ci sentiamo addirittura condannati, l’inadeguatezza e la precarietà delle capacità fisiche rispetto alle aspirazioni ideali ci demoralizzano fino al punto di “nullificarci”.
Scomporre ogni “cosa” in forma e sostanza ci ha portato ad analizzare i particolari più piccoli a scapito del quadro d’insieme, quello che non sappiamo più riconoscere. Abbiamo finito con essere soltanto parti infinitesimali come granelli di un deserto attraversato da correnti d’aria in continuo movimento.
Sballottati da una parte all’altra, percepiamo qualcosa come un rumore di fondo, oppure una luce che colpisce gli occhi e li acceca proiettando ombre dietro e dentro di noi. Infine la solitudine che si manifesta nella incomunicabilità con i nostri simili. Proviamo a parlare ed ascoltare ma, ci accorgiamo di un reciproco fraintendimento e, delusi, ci chiudiamo in un silenzio colpevole verso chi si ostina a voler uscire da questa situazione.
Il problema del capire e del trasmettere la conoscenza ad altri, la tensione verso i pensieri puri e la loro applicazione linguistica sono questioni studiate e discusse dai tempi dell’Iperuranio platonico, tuttavia interessante è la “svolta linguistica” affermatasi con la filosofia analitica verso la fine del XIX secolo.
Parlare era un’azione pratica, una trasformazione materiale di idee astratte in segni scritti o forme orali. Questi “prodotti” venivano successivamente controllati o criticati dalla Ragione che ne valutava il significato e la verità. Si trattava dunque di giudicare la rappresentazione data dalle parole indipendentemente dalle idee da cui avevano origine perché le idee sono astratte e, come tali, sempre perfette.
Sul banco degli imputati salivano, soltanto, le “volgari” parole ree di falsificare la realtà dei pensieri e di comporre discorsi privi di senso dove le idee si confondono, si perdono e scompaiono.
Nel 1884 Gottlob Frege, filosofo della matematica, scrive I fondamentali dell’aritmetica, dove senza giustificazione alcuna afferma che le idee non sono innate nella mente e che lo sforzo linguistico non è legato alla grammatica della lingua ma alla percezione dei pensieri tramite il linguaggio, la difficoltà è “afferrare” i pensieri non esprimerli.
Egli dichiara di volersi occupare dei fondamenti del pensiero e non dei suoi enunciati “il compito principale del logico consiste nell’emanciparci dal linguaggio”, anzi la fraseologia è vista come un ostacolo alla comprensione della verità, come il tedesco ribadisce nella sua ultima fatica: “una gran parte del lavoro del filosofo consiste … in una lotta contro il linguaggio”. Perché vorrebbe esprimere anche quelle idee abbozzate, quelle intuizioni che non sono ancora dispiegate nella mente ma sono più nuove e stimolanti delle altre.
Dubitare del senso del discorso implica dubitare della verità da esso sottesa perché, secondo il logico di Wismar, il significato delle parole è indissolubilmente unito alla verità dei pensieri che esse rispecchiano. Nessuna frattura è concepibile fra la realtà delle prime e la verità dei secondi. Il legame fra queste due entità è così naturale che Frege non si preoccupa di spiegarlo, il linguaggio è un’ideografia, il corpo-simulacro della mente, anzi la realtà è quella che l’uomo pensa che sia, tali pensieri sono formulati con espressioni linguistiche il cui senso è proprio questa costruzione della realtà.
Ludwig Wittgenstein estremizza, in parte, l’analisi logica del predecessore, infatti considera direttamente il linguaggio come pensiero, con parole sue: “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, l’espressione linguistica non è un tramite fra il mondo e la nostra mente, anche se spesso ad essa è stata addossata la responsabilità dell’errore; “a turbarci è la tendenza a credere che la mente sia qualcosa simile ad un omino che sta dentro di noi”.
Nelle Osservazioni filosofiche pubblicate postume, il filosofo austriaco si sofferma sulla particolarità delle diverse lingue parlate, questo studio è dovuto alla sua convinzione che non sia lecito imbrigliare “il discorso linguistico” in una struttura organica che metta ordine fra le possibili corrispondenze fra un idioma e l’altro; le particolarità di ogni lingua sono legate all’uso della stessa.
Il professore di Cambridge introduce la notevole variante dell’uso del linguaggio che continua ad essere pensiero ma può essere o non essere chiaro, nel secondo caso si deve tacere.
Allora la domanda da porsi non è più “che cosa rende una preposizione vera?” come si erano chiesti i filosofi classici ma diviene “è chiaro quel che si dice?”
Invece ho l’impressione che oggi la posizione dei logici citati sia ribaltata e temo che spesso a parlare siano coloro che non hanno le idee chiare e riescono a confonderle anche agli altri.