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Category Archive : Voce del Popolo

Canzoni ‘a guapparia

Una donna innamorata non può soffocare i sentimenti.
La distanza ed il silenzio provocano un’esplosione ancora più fragorosa e violenta, finendo per riscaldare il cuore, perché aumentano la pressione sanguigna, la ragione viene spode­stata e sopraffatta fino a non poter più contenere “l’umore” inconscio.
L’ansia di manifestare il proprio “pensiero” al riguardo, prima che la morte costringa questa verità a diventare un segreto da dimenticare e cancellare, la smania improvvisa di evadere dal circuito chiuso delle proprie riflessioni, tutto questo è la causa e l’occasione che ha scatenato la furia della donna Alda Merini, del suo scrivere di getto, come necessità di dare anima e corpo ai suo sentimento d’amore attraverso la poesia nelle “Canzoni ‘a guapparia”.
Tre poesie scritte e spedite immediatamente a Michele Pierri, poeta e chirurgo di Taranto, quando i due non erano ancora sposati e si frequentavano “a distanza” per lettera ed, ancor più, per telefono. Infatti fu per le bollette “salatissime” che i figli del poeta, già ottan­tenne, scoprirono la relazione fra i due.
Una corrispondenza di sensi che, oggi, si direbbe virtuale perché i due si erano, probabil­mente, incontrati a Milano durante una delle visite di Pierri agli intellettuali del circuito mila­nese, ma l’incontro effettivo delle anime della Merini e di Pierri avvenne anni dopo, nel 1981.
Le canzoni sono datate 24 ottobre 1982, il primo marito dell’autrice lombarda era morto da poco e, forse, questo ha accresciuto la sensazione di solitudine nella Merini che era rima­sta isolata, anche, nell’ambito letterario poiché non pubblicava, ormai, da una ventina di anni circa.
Inizialmente, il poeta di Taranto era l’amico, il confidente, e l’estimatore dell’arte della Meri­ni, ma nel corso della loro frequentazione “spirituale” divennero motivo l’un per l’altra di tor­nare a confrontarsi con la vita, per accogliere le sorprese imprevedibili che essa offre. D’al­tronde, anche il medico-chirurgo meridionale era rimasto vedovo da pochi anni, e soffriva molto per la perdita della moglie, al punto da non mostrare più alcun interesse nei con­fronti dell’esistenza materiale degli uomini.
Il trovarsi dei due poeti, diede la possibilità alle loro anime di riconoscersi nell’altra e di aprirsi all’altrui orizzonte “là dopo quel monte” che ostacola il movimento fisico della felicità ma, nulla può contro “’U gridu” straziante dell’innamorata che vuole raggiungere il suo amato. Nemmeno l’età anagrafica dei due, o la presenza dei figli avuti dal precedente ma­trimonio, nessuna distanza è accettabile, la vita muore se nel petto non ci sono fiori da col­tivare per essere donati all’unica persona che sa curare ed apprezzare quel dono prezio­so ed inaspettato. Un fiore che sboccia a Taranto, dove lei si trasferì qualche mese prima del matrimonio religioso.
La particolarità di questa canzoni è la lingua napoletana usata nella stesura, infatti napole­tane erano le origini dell’amato a cui le grida sono rivolte. Così, la poetessa settentrionale si trasformò in una donna del sud disposta a portare il suo amore lungo la riva del mare per lasciarsi sopraffare.

‘NA DONNA ‘NNAMURATA

‘Na donna ‘nnamurata ch’a se porta
chillu tuo fiore dentro di lu petto,
‘na donna ‘nnamurata non ascorta
d’altro tormento che del tuo diletto,
‘na donna ‘nnamurata ch’a se muore non u può ridare a te chillu suo fiore.

Aperta ho porta sopra chilla via
ch’a dà sopra lo mesto mio cortile
vorrei essere dent’a ‘guapparia
vorrei di strazio tutta a te murire,
perché nella mia vita non ho spazio,
amore ch mi fa tanto soffrire,
perché di terra forte e prepotente
io nata nun te posso dire niente
che non mi si avveleni la giurnata.

‘U gridu mio dirompe le montagne,
io so femmina che ti sa portare
lungo le rive di codesto mare
che sa per te u suo amore lamentare
tutto lo strazio ch’a me fa donare
questo mio sangue dentro l’orizzonte
ch’a tu abiti là dopo quel monte.

Questa poesia con altre due (Venne a me nu figliolo, ‘Na donna ferma), è stata stampata privatamente in poche copie fuori commercio, ne Canzoni ‘a guapparia, scritte per Michele Pierri che non aveva risposto al telefono (come segnalato in un appunto corsivo) e dedica­te A nisciuno per sottolineare il carattere strettamente privato del sentimento espresso in esse. Tuttavia, la voglio divulgare pubblicamente perché questa poesia è, per me, troppo entusiasmante per essere nascosta nel silenzio fra le mie carte.

Voce del popolo n°2 del 200, pagine 22, 23

C’era una volta il museo

Norman Douglas“Chiunque cerca sulla faccia di questi Tarantini e ascolta le loro conversazioni casuali, cer­cando di capire qual è il loro modo di vita. Ma è difficile evitare di leggere nei loro perso­naggi ciò che la storia porta a pensare dovrebbe essere lì”. (Norman Douglas in Molle Ta­ranto).
I Tarantini visti da un viaggiatore straniero dell’ottocento sono una umanità affascinante ma isolata in un tempo ed in un luogo, molto diversi dai lavoratori di campagna e da quelli dei sobborghi della nascente industria europea.
Taranto, come tutto il sud Italia, è stata una meta gettonatissima nell’ottocento sopratutto da parte di studiosi e semplici appassionati d’archeologia. Naturalmente, oltre alla meravi­glia ed alla quantità notevole di reperti più o meno intatti, i viaggiatori cercavano di ritrova­re il sapore della vita esaltata nei versi, ad esempio di Virgilio o di Orazio.
I resti archeologici sono i resti di una storia gloriosa, qualcosa di autentico da avvicinare all’orecchio, come conchiglie, per sentire l’eco del mare.
Nel 1874, uno storico tedesco, Gregovius, venuto nella capitale della Magna Grecia, incre­dulo ed amareggiato annota che la città è culturalmente povera al punto da non avere un museo dove raccogliere le testimonianze della civiltà persa più che passata. Una mancan­za insostenibile anche per Luigi Viola, ispettore archeologico inviato a Taranto nel 1880 per dare inizio agli scavi nel Borgo Nuovo. Il neo-ispettore scoprì una vera e propria minie­ra e, nel 1882, si decide ad inoltrare domanda per l’apertura di una sede idonea ad ospita­re la storia e l’anima della nostra polis. Fino a questo momento tutti i ritrovamenti sono confluiti nelle collezioni del museo di Napoli, ricchissimo di tesori tarantini ma lontano dal contesto magno greco. Il nostro museo apre ufficialmente nel 1887 nella sede settecente­sca del convento degli Alcantarini attiguo alla Chiesa di san Pasquale di Baylon, edificio adibito a carcere giudiziario in uso fino al 1875. Infatti, le iniziali 11 sale conservavano il buio e il cattivo odore della prigione, come percepito da un altro viaggiatore inglese, Geor­ge Gissing, venuto nel 1889 su indicazione del saggio del noto archeologo Francǫis Le­normant; lo scrittore inglese deplora il buio e il silenzio del luogo privo di visitatori, quasi condannato all’oblio.
La situazione inizia a cambiare, con l’ingrandimento e la risistemazione delle sale, a parti­re dal 1903, data a cui risale la facciata in stile umbertino. Un cambiamento non esclusiva­mente estetico considerando che, Norman Douglas (su citato), giunto a Taranto nel 1915, scrive: ”Gregorovius lamentava la condizione sporca della città vecchia. Ora è immacola­ta.
Egli ha deplorato che Taranto non possedeva un museo. Questa volta è cambiato, e il Mu­seo Nazionale qui è giustamente lodato”.
Nel frattempo, la direzione non è più del fondatore Viola che, in una lettera del 1910, la­menta con l’amico e scrittore Pietro Marti, perché da quando ha lasciato l’impiego statale, per dedicarsi all’impegno politico in favore della città, la sua vita si è complicata al punto da perdere l’affetto di moglie e figli oltre a vedere profondamente manomessi i suoi proget­ti per il museo.
Gli scavi del 1899, ad opera di Quintino Quagliati, hanno portato alla luce i resti di epoca preistorica convincendo il nuovo soprintendente a dedicare il museo a tutta la documenta­zione archeologica tarantina e non, soltanto, a quella di epoca Magno Greca come “cal­deggiato” dal vecchio archeologo, ormai sindaco.
Il museo rimane accessibile, anche, durante la prima guerra mondiale; l’abbondanza dei ritrovamenti che non sono esposti per mancanza di spazio nelle sale aperte al pubblico, porta ad una serie di lavori per ingrandire l’edificio, fino alla realizzazione nel 1941 dell’ala settentrionale.
Durante il secondo conflitto mondiale, l’esposizione viene smantellata e l’edificio occupato e convertito in ospedale prima ed in caserma poi; a questo segue la risistemazione com­pletata nel 1952, con la costruzione di una sala, appositamente, studiata per l’inedita esposizione degli ori, preziosi e strabilianti manufatti capaci d’incantare anche i sovrani moderni. Infatti, proprio negli anni ’50 Taranto è meta di personaggi di rilevanza internazio­nale, amanti della storia e dell’ archeologia come re Gustavo VI di Svezia, appassionato al nostro museo come espressione concreta della civiltà che continua a essere. I lavori di costruzione del piano rialzato del palazzo sono inaugurati con la riorga­nizzazione del 1963 a cui segue quella “ciclopica del terzo millennio a cui si deve un nuo­vo criterio logico nel percorso espositivo, una nuova entrata da via Pitagora anziché cor­so Umberto, una statua ricostruita con l’ausilio della tecnologia del computer; a questo mi piacerebbe intrecciare l’interesse dimostrato dai tarantini, affluiti in massa, a vedere e rivere il loro museo, ma questa è una storia ancora da verificare.

VOCE DEL POPOLO n°25/2009, pagina 15

Tutta la vita è risolvere problemi

Tutta la vita è risolvere problemi

Il primo principio della dinamica stabilisce che: “un corpo rimane nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme a meno che non intervenga una forza esterna a modificare tale stato”.
Difficile sperimentare direttamente questo fondamento perché, sulla terra, c’è l’attrito che osta­cola lo svolgimento del moto, e conserva la quiete, anzi, ne ostacola la trasformazione che por­terebbe alla creazione di energia cinetica.
L’attrito è un fatto fisico, imprescindibile per noi terrestri, sia esso che i problemi che com­porta; ecco perché non possiamo ipotizzare la vita sulla terra come: lo svolgimento lineare dell’esi­stenza di un corpo che rotola, da solo, infinitamente su di un piano liscio.
Posto che gli ostacoli, o problemi, fanno parte del nostro mondo naturale, non possiamo far al­tro che prenderne atto e cercare di risolverli. Ed è proprio questa sfida a motivare l’intelletto uma­no nel congetturare risoluzioni e rimedi e vincere l’attrito che ci condanna al freddo della morte.
Secondo il filosofo della scienza, Karl Popper, tutti gli organismi viventi sulla terra tentano di ri­solvere problemi, per esempio: la fame, la sete, la cura di una ferita o il calcolo dei neu­roni in un cervello. L’uomo non fa eccezione, però è avvantaggiato dal proprio sviluppo co­gnitivo perché, per l’epistemologo austriaco, non siamo tabulae rasae, terreni vergini mai arati, come vorrebbe la tradizione platonica, ma ognuno ha dei pre-concetti, delle ipotesi e delle aspettative che ap­plica immediatamente alla situazione da affrontare, per poterla ca­pire e superare.
Ogni risultato incrementa il bagaglio della ragione; questo significa che esso è un gradino al quale, sicura­mente, seguiranno altri e, magari, sarà sostituito ed abbandonato. Anzi, prima di arrivare alla costruzione di una teoria lo scienziato cerca con gli esperimenti la conferma, nella realtà, delle ipotesi così come l’uomo comune tenta di fare quotidianamente, scegliendo cosa fare e, talvol­ta, sbagliando, l’importante è ricono­scere gli errori ed imparare da essi.
Nel discorso Tutta la vita è risolvere problemi, tenuto a Bad Homburg nel 1991, il professore di Vienna dichiara: “la correzione degli errori è il più importante metodo della tecnologia e dell’ap­prendimento in generale”.
Secondo teorico del criticismo razionale, gli errori e le confutazioni servono per “aggiustare il tiro” e danno valo­re ad una teoria perché sono le cicatrici di prove fatte e non semplicemente enunciate con parole assolutamente intangibili.
Il filosofo liberale aborrisce ogni forma di totalitarismo ed assolutismo, compreso quello religio­so delle credenze vere anche se non dimostrabili; quel che distingue una teoria scientifica da una favola magica è la falsificabilità di ogni sua proposta. Sottoporre al vaglio critico ogni ipotesi ed ogni teoria ci permette di meglio adat­tarla alle nostre esigenze ed infine adattare il nostro pensiero razionale alla vita.
Haber­mas, illustre filosofo tedesco, polemizza con Popper poiché le sue pretese di raziocinio partono da basi irrazionalistiche: ”Il tentativo di Popper di difendere il razionalismo della logica scientifica dalle conseguenze irrazionali della sua fondazione necessariamente de­cisionista, […] . Il problema è di sapere se un’amministrazione razionale del mondo coinci­da con la soluzione delle questioni pratiche poste storicamente” e Popper reagisce: “ Adorno e Habermas sono tut­to fuorché chiari nella loro critica della mia posizione. Per dir­la in breve: credono che la mia teo­ria della conoscenza, poiché essa sarebbe (come loro credono) positivistica, mi costringa a di­fendere lo status quo sociale. . Hanno dimenticato che io sono sì un liberale (non rivoluzionario), ma che la mia teoria della conoscenza è una teoria della crescita della cono­scenza mediante la rivoluzione intellettuale e scientifi­ca”.
Gli errori vengono dallo scontro imprevisto fra idee astratte e realtà, per onestà intellettua­le non possiamo far finta di niente, negare gli sbagli o addirittura i problemi che ci hanno “indotto” ver­so quei tentativi fallaci. Popper fa appello alla creatività dell’immagina­zione per trovare nuove ri­sposte a domande sempre più complesse ma, io penso, sopratutto, che affrontare le que­stioni sia essenziale per la nostra stessa sopravvivenza, senza rimandare crisi, interrogativi e buone intenzioni fino al 2050.

Tributo d’amore alla città patria

“Oebaluam Arcem tarentinam dixit”, ovvero i poeti greci si riferiscono a Taranto con l’appel­lativo di Rocca Ebalia, dal nome della regione dove sorgeva Sparta (gli stessi spartani sono indicati come ebalidi).
La rocca sorge sul terreno dirupato e scosceso, sullo scoglio, la punta da cui tuffarsi nel mare, l’ultimo avamposto della terra ferma ed, il primo approdo dopo il naufragio.
Questo è il luogo che noi, discendenti, chiamiamo Taranto vecchia, la fortezza dove si ar­rampicano le brame dei conquistatori, dove si sovrappongono le ombre dei millenni, dove i sassi testimoniano leggende dimenticate o rimosse dalla volubilità degli uomini, dove il tramonto del sole è così spettacolare da incantare perfino gli eroi come Ercole, per indurli al desiderio del piacere dei sensi.
La venerazione ed il culto di Ercole è garantita dalla presenza de “il colosso del nume (che) doveva anzi essere collocato nel punto più elevato dell’Acropoli, fra le attuali piazzet­te san Francesco e san Costantino,(m.12,50 sul livello del mare) perché le navi che giun­gevano in porto, o ne uscivano, potessero vederlo da lontano”.
Nella ricostruzione di Egidio Baffi, storico e storiografo tarantino, non ci sono fratture irri­mediabili, fossi insuperabili e speranze irreparabilmente perse, ricordi e contingenza sono un racconto unico e continuo, spesso le storie hanno la stessa voce oltre ai tratti somatici comuni, un eterno presente in progressione forse non rispondente alla rigidità degli schemi scienti­fici di un’archeologia strenuamente rigorosa e “polverosamente” erudita, il nostro autore ama la nostra città, pertanto non pretende di spiegarla alla ragione di turisti di pas­saggio, il cronista vuole assaporarne appieno la vita e condividere, con noi, il gusto di tale banchetto.
Forse proprio i fasti, specificatamente nel periodo ellenistico, fra vini prelibati e profumi inebrianti emanati dai fiori delle corone con cui le belle tarantine si ornano il capo, forse il lusso di monili raffinati ed eleganti come non se n’erano mai visti prima, o forse l’invidia per la potenza sul mare… Orazio stigmatizza in un celebre verso: “molle imbelle tarentum”, come se la regina dei due mari non sappia nuotare ed indugi sulla riva preferendo la dis­solutezza e il delirio delle baccanti all’austera navigazione in mare romano. No, l’innamora­to della sua città non accetta di vederla ridotta a luogo comune del disprezzo dei vincitori sui vinti; un verso che deve essere accuratamente studiato ed interpretato, un argomento che mina il carattere dei concittadini per annientarne l’orgoglio dopo averne distrutto le di­fese murarie e saccheggiato le case ed i templi.
L’offesa dei conquistatori stra­nieri grava sul cielo di Taras, sul cielo dell’intellettuale che op­pone un’appassionata difesa contro a calunnia inaugurata dal poeta latino, la strenua dife­sa nel libello intitolato proprio come il verso incriminato.
Il valore di quest’opera è quello di materializzare e fissare su carta la dedizione, il trasporto amoroso, il rispetto del cives verso i luoghi della sua infanzia, sentimenti che lo hanno en­tusiasmato rendendolo instancabile nella ricerca della verità storica. Il suo interesse non si limita all’archeologia, alla topografia, alla storiografia, egli analizza, anche, il linguaggio dentro e fuori i confini presunti della capitale magno-greca; uno studio complesso non per far bella mostra del proprio sapere ma, più modestamente, per soddisfare il bisogno di ab­bracciare la propria amata patria.
A questo proposito, un altro illustre tarantino, Giacinto Spagnoletti, ha scritto: “Questo solo Baffi chiedeva alle sue ore migliori: di discutere della sua città, della posizione delle anti­che ville romane, di templi, delle leggende medioevali, con chiunque mostrasse desiderio o curiosità in siffatti argomenti”.
In questi giorni grigi e soffocanti, in troppi invocano l’ab­bandono di questa città tradita e deturpata dal disincanto, spesso ostentato, dei suoi stessi figli, ma questo vociare nebulo­so scosso da tuoni spaventosi di capi improvvisati, queste correnti umide mi raggelano così traggo grande beneficio (e non consolazione) nel leggere tra le righe dell’illustre Baffi, una dichiarazione accorata per la mia città.

Forum con Antonio De Padova

Nel forum di questo numero intendiamo dare spazio ad una “voce fuori dal coro”, il coro dei troppi che, in nome della crisi economica globale, ritengono doveroso non investire nelle capa­cità del proprio territorio.
Il dott. Antonio De Padova , presidente della assoartigianato di Taranto ha un punto di vista di­verso.

Il 20 Gennaio 2009 lei è stato eletto presidente della neo-nata assoartigianato di Taranto; un’associazione nata quando molte piccole imprese ed attività artigianali e commerciali chiudono, allora quanti sono gli associati?
Per il momento, gli associati sono circa 200.
Con 20 collaboratori ci siamo messi al tavolo per trovare un progetto intorno a cui riunire le pic­cole imprese locali per partecipare allo sviluppo del nostro territorio. Sono stanco di sentire pia­gnucolare, litanie mnemoniche ed abitudinari che contribuiscono a creare una cappa sulla città. Lamenti che suonano come scusa per non impegnarsi e non contribuire alla crescita ed al pro­gresso qui possibili.

Si tratta, solamente, di rappresentanza?
Non ci interessa la quantità delle tessere, abbiamo un altro stile, noi tentiamo di far capire alle imprese artigiane quelle più piccole e deboli che devono mettersi insieme per avere un ruolo at­tivo nello sviluppo del territorio e non essere annichiliti dall’attuale sistema economico. Noi stia­mo creando una rete che metta in comunicazione le piccole e piccolissime realtà che così ac­quisteranno la forza di competere sul mercato, anche, con strutture maggiori. Abbiamo già mes­so in pratica questa idea creando dei consorzi, per esempio, a Mottola, a Lizzano, a San Marza­no, a Manduria.

State portando avanti un progetto particolare?
Il 13 Ottobre scorso il comune di Taranto ha adottato per l’area pip di Talsano il nostro progetto che abbiamo denominato “Campus delle imprese”. Campus richiama l’idea dell’offerta di mae­stranze in vari settori perché vogliamo dare una vetrina ai diversi prodotti, produttori di carattere locale. Un modello a livello regionale che porteremo all’attenzione nazionale con un’iniziativa alla presenza del presidente nazionale di Assoartigiani per esportare questo esempio anche in altre realtà interessanti.

Una fiera permanente dunque, quante saranno le imprese che faranno parte di questo progetto privato?
Un centro espositivo permanente su un area di 341.000 mq, dove ci saranno i capannoni di 72 le imprese, divise in due comparti: il comparto A con 40 elementi è già tutto esaurito, per com­parto B ci sono diverse richieste ma abbiamo ancora delle disponibilità. In particolare, all’interno del comparto B, vorremmo allocare delle imprese esterne al territorio per uno scambio necessa­rio di NOAU (know how “saper fare”). Questa volontà deriva dal nostro disegno di quel piano lo­gistico di cui oggi molti si attribuiscono la filiazione ma, così non è, perché siamo noi ad aver ideato il distretto logistico, 10 anni fa , insieme a questo consorzio hinterland attorno a cui ab­biamo riunito le imprese che hanno investito impegnando propri capitali, perché va ricordato che il progetto del Campus è, interamente privato, non ci sarà nessun contributo pubblico. Il Co­mune ha tutto da guadagnare per esempio come incremento dell’occupazione, infatti i dipen­denti attuali di queste aziende sono 210 ed arriveranno ad essere 850. Il volume di affari delle imprese coinvolte è di 85 milioni di euro ma prevediamo arrivi a 250 milioni di euro. Questo pro­getto è un volano incredibile per la crescita economica.

Qual’è il tempo previsto per l’attuazione di questo progetto?
Dai 2 ai 4 anni. Partiranno prima le aziende che hanno urgenza di cambiare sistemazione.

Un progetto interessante che applica l’intuizione della rete telematica, quale altra virtù “moderna” verrà concretizzata?
La cosa più bella è che è un progetto eco-compatibile. Siamo in regola, otterremo la certificazio­ne Nos, infatti sono previsti 34.000 m di verde e 69000m di parcheggio coperto con fotovoltaico e sugli 80000 m dei capannoni verranno installati pannelli solari per una produzione di 10 Mega watt di energia che permetterà un risparmio sulla bolletta energetica del 30% rispetto alla media pagata all’enel.

Queste imprese come saranno coordinate tra loro?
Questo aspetto è Importante. Il cuore del Campus è il centro servizi, un area di 4ooo mq con magari una banca e la posta ed un ristorante per i lavoratori stessi; un luogo dove portare il cer­vello di quel che si muove sul territorio, cioè creare, come al cis di Nola, un polo per la distribu­zione delle merci e, sopratutto, un servizio logistico che significa movimentare le persone e le merci e portarle lì dove vengono consumate.

Un esempio pratico?
La merce comprata al dettaglio ha un costo maggiore di quella comprata all’ingrosso, ma le for­niture all’ingrosso necessitano di ordinazioni di quantità consistenti; le piccole imprese artigiane abbatteranno i costi facendo ordinazioni tutte insieme tramite il centro servizi, e così per i costi del trasporto o della vigilanza.

Il centro servizi assicura anche assistenza finanziaria?
Sì, tramite i COFIDI Puglia a cui siamo arrivati tramite Confindustria (di cui io sono il vice -presi­dente della sezione locale). Prima avevamo tanti COFIDI, adesso abbiamo un sistema unico per tutta la Puglia con associati da Foggia a Lecce, con un potere di contrattazione con le banche più forte garantito da un maggiore patrimonio cumulativo degli associati..

Per il transito delle merci occorrerebbe un sistema di infrastrutture migliore di quello che Taranto e la provincia offrono.
Dai nostri rilevamenti risulta che Taranto, nel meridione d’Italia, è la città col coefficiente più alto per quanto riguarda le infrastrutture. L’autostrada si ferma a Massafra ma basta collegare me­glio l’ultimo miglio della 106 e il problema viabilità è risolto.

Dalle ultime dichiarazioni del presidente della regione Vendola, si evince il rafforzamento delle strutture aeroportuali di Bari e Brindisi, questo non è un punto di debolezza per il sistema logistico da lei citato?
D’accordo, se parliamo del breve periodo, di qui a 5 anni ma nel lungo periodo le merci atterre­ranno a Grottaglie. Gli aeri che sta costruendo Alenia per gli americani, sono molto voluminosi e necessiteranno di piste lunghe per l’atterraggio, tali piste non sono disponibili né a Brindisi, dove finirebbero nel mare, ma neppure a Bari perché entrerebbero nel quartiere palese. Per cui,il fu­turo aeroporto del mediterraneo, o comunque, le uniche piste disponibili saranno quelle della vi­cina Grottaglie.

Il porto?
Il porto è uno dei punti di forza d questo territorio, un scalo a cui arrivano e da cui partono un numero smisurato di container. Taranto è ormai il secondo porto italiano, per importanza, ed il primo nel Mediterraneo ma utilizziamo poco questa nostra opportunità di scambio commerciale e quindi di ricchezza economica. Il porto è il futuro di questa città, ma non bisogna continuare a perdere tempo, in questo senso io non credo ai dragaggi, dal nostro porto passano già 800.000 container e non si fermano; questo è il problema fondamentale non riuscire ad utilizzare il pas­saggio di tante merci.

Il non riuscire a sfruttare questo punto di forza è causato dalla debolezza della classe po­litica dirigente?
Persone di valore ne abbiamo ma non hanno lo spazio ne­cessario per esprimersi. La politica non c’entra. In Italia abbiamo esempi d’imprenditori che si sono affermati senza l’aiuto o l’intervento della politica.

Nei giorni scorsi il ministro Tremonti ha auspicato il ritorno al posto fisso, ma Giuseppe De Vita, dalle colonne di Repubblica, ha ristretto l’ipotesi alle piccole imprese con 10-15 dipendenti; lei da che parte è?
Ho una mia idea che non concorda con nessuno dei due.
La flessibilità del lavoro non è un problema quando il lavoro è svolto con professionalità. Tutti i lavori dovrebbero essere svolti con professionalità da quelli di responsabilità a quelli più mecca­nici. La flessibilità è una garanzia sopratutto nell’ambito pubblico dove il lavoro procede, spesso, con troppa lentezza e poca competenza.

Qual’è la sua posizione sull’abolizione dell’ IRAP?
Se dobbiamo essere realisti, ed io lo sono, è una cosa impossibile. In altri paesi non esiste que­sto contributo ma ne esistono altri; l’Irap porta nelle casse dello Stato 51 miliardi di euro.
Con la buona volontà, tagli e risparmi non si arriverebbe a coprire la voragine lasciata dalla mancanza di una entrata così ingente. Si potrebbe cercare di attenuarla, oggi non c’è bisogno di questi grandi annunci, invece bisognerebbe mirare ad una maggiore agibilità del sistema impre­sa.

Il rispetto delle regole

Ogni mattina, al risveglio tiro un lungo respiro per prepararmi alla giornata che sta per ini­ziare. Una formula per cautelarmi dallo stress quotidiano, fra progetti ed imprevisti e, so­prattutto, com­plicazioni indotte dall’ insolenza, tragicamente diffusa, fra i miei simili.
Certo, la mia è un’esagerazione provocatoria ma, sempre più spesso trovo, sul mio cammino, persone prepotenti, forti della propria arroganza, che mi vengono addosso gridandomi, pure, di spostarmi perché devono passare loro per primi.
Questo atteggiamento mi demo­ralizza e continuare per la mia strada sembra più pesante. La vita, oggi, non è più difficile o complicata di qualche anno fa, sono però aumentati gli incivili, ov­vero coloro che non rispettano le regole della società di cui fanno parte; o forse, non si ricono­scono nella società e non si sentono in dovere di rispettarne l’ordinamento.
Fra questi malumori e risentimenti, mi sovviene una frase del Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau:“… invece di pensare che per noi non ci sia né virtù né felicità, e che il cielo ci abbia abbandonato senza soccorso al decadimento della nostra specie, sforziamo­ci di ricavare dal male stesso la medicina che deve guarirlo”.
Un respiro profondo è necessario, questa è l’anticamera della questione morale, dove interes­se pubblico e quello privato perdono consistenza, nessun privilegio e predominio di una parte sul tutto, nessun egoismo è lecito, agire bene per il bene di tutti dovrebbe essere l’imperativo ca­tegorico di ogni cives.
Infatti, per il filosofo francese citato, morale e politica dovrebbero coincidere così come l’utile del singolo individuo e quello dell’intera società.
L’uomo nasce libero e buono e lo rimane fin quando resta isolato nel bosco, un animale fe­lice e primitivo; come ogni essere naturale non possiede nulla e vive alla giornata.
Presto, però, l’essere umano tradisce questa sua solitudine eremitica e si avvicina ad altri esem­plari della sua specie, fino a formare con essi delle comunità; all’interno di questi gruppi si stabiliscono regole di comportamento (un contratto sociale) per favorire la convivenza di tutti i membri associatisi. A riguardo il nostro pensatore illuminato scrive: “Ciò che l’uomo perde con il Contratto Sociale è la sua libertà naturale, e un diritto illimitato su tutto ciò che lo tenta e che può essere da lui raggiunto: ciò che guadagna è la libertà civile e la proprie­tà di tutto ciò che possiede”.
Sia chiaro che, la scelta non è: stare nella società civile o nel bosco con le bestie feroci, ma non si tratta nemmeno di scegliere con chi stare, quanto contro chi muovere guerra.
Il padre teorico della rivoluzione francese pensa al contratto sociale come ad un patto con sé stessi, nessun principe né monarca assoluto a cui sottomettersi, il popolo è l’unico so­vrano di se stesso; in un’altra sua opera fondamentale, Emilio, l’autore scrive: “ Il patto so­ciale ha una natu­ra particolare e propria a lui solo, il popolo stipula un contratto solo con se stesso[…]”.
In quest’opera, uscita quasi contemporaneamente a quella su citata, Rous­seau descrive il per­corso formativo adatto all’educazione dei fanciulli, per la priva volta, non considerati come uomi­ni in piccolo ma come boccioli con una propria sensibilità.
Il bambino nasce ingenuo, ed in questo migliore dell’adulto che diventerà, con la crescita accu­mulerà esperienze e conoscenze che corromperanno il suo animo immacolato, e que­sto è un processo irreversibile ed inevitabile tanto da vanificare tutti i divieti e le imposizio­ni costrittive perché la virtù dell’innocente deve essere preservata e non soffocata. La civiltà è una pratica del saper vivere e non un comandamento da imparare a memoria. Il pedagogo moderno teoriz­za una educazione preventiva, per evitare vizi ed errori, la preparazione ad una vita morigerata e serena.
Tuttavia, queste teorie saranno distorte dagli eccessi di Robespierre, che col regime del terrore finì per inseguire il suo bene, ghigliottinando an­che preventivamente, tutti i dissidenti che avreb­bero potuto ostacolare la sua permanenza al vertice del governo.
In fondo il pericolo è proprio questo, che in nome della moralità e della giustizia, si ceda ad un sistema inelastico fatto di forzature più che delle regole.
Ciò non toglie che rispettare le leggi significa rispettare se stessi.

Fiducia nella capacità d’essere felici

Una economia valida non rincorre enormi quantità di ricchezza né arranca dietro ipotesi di utilità sfrenata, a misero vantaggio di un manipolo di nobili avventurieri; la teoria economi­ca premiata col Nobel, nel 1998 ad Amartya Sen, parla di benessere, uguaglianza e liber­tà, distribuite sull’intera popolazione del globo terrestre.
Nelle teorie economiche “classiche” si contempla e si misura la ricchezza reale di un sin­golo stato in base alle sue entrate, al prodotto interno lordo, finanche considerando la sua potenza industriale effettiva, l’estensione del mercato interno la disponibilità di materie pri­me e dei mezzi per estrarle e trasformarle; insomma il patrimonio materiale di un paese è l’eredità che può tramandare ai suoi discendenti.
L’economista indiano, professore presso l’università statunitense di Harvard, attualmente rettore del Trinity College di Cambrige, consulente delle Nazioni Unite, del Fondo monetario e della Banca Mondiale, l’ esperto di finanza etica sostiene che la risorsa economica più vantaggiosa, per una nazione, sia l’op­portunità (e il suo continuo incremento) di soddisfacimento dei bisogni dei suoi cittadini; in altre parole la speranza di realizzare il desiderio di una vita felice, questa è la garanzia di un progresso ed un futuro al sicuro da crisi economiche sia globali che locali.
Lo scienziato del Bengala ribalta le teorie economiche, fino ad oggi “Vangelo” per i profes­sionisti del settore perché egli parte dallo studio della povertà, le sue cause e le sue con­seguenze in termini di violenza e terrorismo. Fondamentale alla riuscita dell’incremento e dello sviluppo sociale, prima che economico, è un governo democratico garante della li­bertà individuale dei suoi protetti.
Infatti, la libertà è alla base di ogni iniziativa, la premessa indispensabile per l’affermazione delle capacità di reazione all’infelicità di una esistenza inutile se priva di significato (a causa della mancanza del lavoro o della possibilità di crearsi una famiglia con un tetto sulla testa e con cibo a sufficienza per sfamarsi).
Indice del funzionamen­to del sistema economico è, anche, il benessere percepito dalla popolazione, al di là dei caratteri ottimisti o pessimisti dei singoli, la possibilità d’impiegare le proprie capacità sti­mola la fiducia nel mercato, dal piccolo fino al grande imprenditore. Come sostenuto da Adam Smith, due secoli fa, il mercato si basa sulla fiducia, anzi probabilmente, per Sen, la crisi economica che ha sconvolto il mondo del terzo millennio, è dovuta alla diminuzione di fiducia nel mercato eccessivamente deregolamentato, prova ne sia il diverso andamento della crisi nei paesi asiatici, in particolare in Cina ed in India, paesi dove lo scambio del li­bero mercato è limitato dal controllo governativo.
Dunque, la ricetta per una nuova economia è ricca d’ ingredienti “etici” quali libertà, ugua­glianza e felicità.
La messa in pratica di questa teoria, potremmo dire che sia la Grameer Bank di Muhammad Yunus, che ha ricevuto i premio Nobel per la pace nel 2006 con la motivazione: “per gli sforzi per creare uno sviluppo economico e sociale dal baso, […] Ogni persona sulla Terra ha il potenziale e il diritto di vivere una vita rispettabile. Attraverso le culture e le civiltà, Yunus e la Banca Grameer hanno mostrato che persino il più povero dei poveri può lavorare per il proprio sviluppo”.
Ovvero il banchiere del Bangladesh è il fondatore del microcredito,il sistema di finanziamento che contempla prestiti di piccole somme a persone indigenti per sponsorizzarne una attività lavorativa, Yunus ripete spesso “la povertà non è stata creata dai poveri” dunque non sono loro a voler rimanere nella miseria, ma, da soli non hanno i mezzi per affrancarsene.
Questa Banca fondata nel 1976 come istituzione non governativa, e riconosciuta ufficialmente nel 1982 con lo statuto di banca, oggi raggiunge 27000 villaggi del Bangladesh e molti Paesi nel mondo, una “trasmissione di pensiero” su cui si sono sintonizzate la maggior parte delle banche e degli istituti di credito occidentali compresa la Banca Mondiale.
La “banca del microcredito” effettua piccoli prestiti (da 100 a 200 dollari), basandosi non sulla solvibilità del debito (garantita, generalmente, da beni immobili o da un lavoro sicuro) ma bensì, sulla fiducia che il creditore concede al richiedente ed al suo progetto d’investimento quasi sempre lavorativo.
Il rimborso alla banca è garantito da gruppi di solidarietà, i cui membri promuovono e sostengono i progetti assumendosi la responsabilità ideale del prestito, nel 98% dei casi l’impegno è stato onorato e, spesso, rinnovato a tutto vantaggio dell’emancipazione della popolazione dall’indigenza e dalla sua disperazione.
L’innovatore del nuovo sistema finanziario non ha rapporti diretti con il collega indiano, proprio per questo sembra confermare la validità della teoria del primo con l’esempio concreto che “sì, si possiamo farlo”, uscire dalla povertà e distribuire la ricchezza è possibile basta aver fiducia nella volontà e nella capacità di ognuno di essere felice.

Follia pura

Folli sono sempre state quelle persone divergenti, oltre il limite della stravaganza, eccessi­vamente anticonformiste, inebriate dalla gioia del vivere sopra le righe delle convenzioni civili, in un delirio continuo fra trasgressione dei divieti e creazione di nuovi mondi in cui ri­fugiarsi dopo l’evasione dalla banalità.
La dotta follia, quella a cui Erasmo da Rotterdam dà voce (in: Elogio della follia) per ironiz­zare e criticare i dogmi, pesanti quanto ipocriti, con cui gli ignoranti venivano “preservati” nella loro povertà carica di superstizione.
La follia come un mondo alternativo, dove ogni Don Chiciotte può combattere i propri muli­ni a vento, isolato nella sua utopia personale, dove la massa popolare non deve seguirlo.
For­se, quest’esempio sembra troppo romanzesco, il racconto auto-referenziale di una éli­te, artisti ed intellettuali che, come Tommaso Campanella, si fingono matti per non cedere alle assurdità imposte dai potenti di turno.
La Storia della follia di Michel Foucault, invece, è la precisa ricostruzione storica delle terri­bili vicende di una umanità dolente, contro cui si è scatena­ta una repressione durissima dal medioevo all’ottocento, perché, come spiega l’autore la follia da stato di grazia (dato dal contatto con gli dei) diviene l’oltraggio al potere religioso e regale, l’affronto causato dal suo sconvolgere valori e razionalità pubblica; a sostegno di questa verità, l’archeologo dei saperi, addita alcuni innocenti detenuti nella Bastiglia (Parigi) rei d’essere diversi da Dio e dagli altri uomini.
Per il filosofo francese, importante è capire che, dopo il mille, gli stolti diventano dannati e dunque furiosi, cioè sono considerati uomini pericolosi, che scelgono di alienarsi dalla real­tà per non voler sopportare le responsabilità implicate dalle regole fondanti la civiltà uma­na; anime irrequiete e suicide, votate al tradimento quanto al piacere lussurioso.
Anzi, questi esseri immondi sono equiparati alle belve feroci, tanto che, nella Francia del XVIII sec. troviamo conventi francescani dove ”gli educatori” cercano di restituire comple­tamente i degenerati al loro stato bestiale, per poi tentare di ammaestrarli, successivamen­te, come animali domestici.
Comunque, fino al XIX sec. sono i religiosi a prendersi cura dei corpi e delle anime di que­sti infelici, così l’ordine religioso di Bons Eilsfonda nel 1602 fonda la Charité a Parigi e nel 1645 la Charité di Sémils considerate i migliori asili per rabbiosi di Francia.
Sia per l’aristocrazia nobile e sia per la borghesia rampante: i folli, qualunque cosa essi siano, vanno tenuti lontani, anche dalla famiglia, soprattutto se povera poiché non potreb­be garantire la sicurezza, non del malato ma, della società.
Foucault scrive ne La nascita della clinica che, l’allontanamento dalla famiglia a favore dell’internamento in ospedale è una aberrazione, una “malattia della malattia” nessun af­fetto è consentito verso questi mostruosi scherzi della natura.
Spesso, avere uno di questi esemplari nell’albero genealogico equivale ad una nota nega­tiva ed infamante, così da mandare il “disonorante” il più lontano possibile dalla casa d’ori­gine, per cercare di cancellarne ogni segno fisico oltre alla memoria.
Fino alla nascita del manicomio moderno nel XVIII sec., gli asili per l’internamento dei folli sono posti ai margini della provincia o nei sobborghi della città, questo per evitare che le urla disperate dei reclusi potessero giungere ed invadere il mondo dei normali, costringen­do quest’ultimi a prendere coscienza dello strazio di corpi martoriati, anche, con la frusta, ricoperti d’insulti e di stracci sporchi.
Il professore di Parigi, riconosce che, nell’epoca contemporanea, la medicina è notevol­mente progredita e che questa ricostruzione storica ci serve per capire alcuni tabù e alcuni preconcetti che, tutt’oggi, gravano sulla civiltà occidentale favorendone la corsa verso il declino.
Questo è quello che il nostro saggista ha imparato dal filosofo Friederich Nietzsche, il qua­le però, nell’epilogo de La gaia scienza, lascia la parola agli spiriti liberi che saltando e ri­dendo come folletti maliziosi e giulivi dicono: “Non ne possiamo più, basta, finiscila con questa musica nera come i corvi. […] Ci fu mai un’ora migliore per essere lieti? Chi ci can­terà una canzone, una canzone mattutina così assolata, così lieve, così aerea che non im­paura i grilli – che i grilli anzi invita a cantare e ballare insieme?”.
Vogliamo unirci al coro allegro che va incontro al deserto? Senza smaniare dietro al mirag­gio dell’oasi felice, impegniamoci a non demonizzare, mai più, tutti i diversi, allontanandoli da noi, aboliamo tutti i ghetti e tutte le barriere che ci condannano all’estinzione, come di­nosauri obsoleti.

Donne vere

Il pianeta terra è un unico intero, di cui fanno parte i regni animale, vegetale, minerale; ognuno di questi regni è diviso in specie e famiglie fino alla distinzione di genere femmini­le e maschile. Suddivisione concepita per dare un ordine logico, per catalogare o indiciz­zare col nome, tutto quello che ci circonda e di cui siamo parte, nostro malgrado.
Le donne sono i pianeti di un cosmo chiamato specie umana, noi costituiamo il 52% della popolazione mondiale, ma siamo corpi leggeri, facili da buttare a terra e calpestare.
La maggioranza silenziosa che, nemmeno è consapevole di avere una voce.
Fortunatamente, ci sono eccezioni importanti a questa consuetudine che non conosce frontiere di spazio, tempo, religione o status sociale.
Non sappiamo chi sia stata la prima donna a sentirsi libera e felice di esserlo, ma sappia­mo chi fu la prima ad essere uccisa a causa del suo pensiero, Ipazia di Alessandria una pagana rinomata come filosofa e scienziata, martirizzata nel Marzo del 415 d. C.
La sua è una figura particolarmente affascinante perché oltre a studiare ed elaborare la sua conoscenza in campo astronomico, matematico e filosofico, Ipazia è stata insegnante lodata dai suoi allievi (Sinesio da Cirene, Socrate Scolastico, Damascio) e “sacrificata” a causa della fierezza delle sue convinzioni mai ricusate. La bella sapiente desiderata e mol­to corteggiata sia dai pagani che dai cristiani della sua città, ma l’amore che nutriva per la conoscenza la assorbiva al punto da rimanere impassibile davanti alle avance amorose ri­voltele, insistentemente, dai suoi studenti come testimoniato dai frammenti di lettera giunti fino a noi.
La bellezza aiuta ad arrivare fulmineamente al cuore, ma non è l’unica “virtù” femminile, pensiamo, ad esempio, ad una delle più importanti pittrici messicane del secolo scorso Fri­da Kahlo, il cui corpo offeso da un incidente le ha dato lo stimolo per dipingere immagini femminili non distorte dallo sguardo maschile e con tratti tipicamente messicani, figure che l’hanno candidata a paladina del popolo, in un momento in cui la difesa del folclore e delle origini povere e meticce era considerato un atto eversivo di pura ed inutile utopia.
Frida, anche quella stampata sui francobolli statunitensi, non è esteticamente bella, ma l’intelli­genza e la passionalità che trasudano dalle sue tele non lasciano spazio alla valuta­zione dei suoi tratti somatici. Frida, al contrario d’Ipazia, ha avuto diversi amori, con en­trambe i sessi, il più importante dei quali col marito Herrera (sposato per due volte di se­guito), senza avere figli.
Non ha rinunciato alla famiglia un’altra donna sudamericana, convinta di doversi impegna­re per i diritti della popolazione colombiana contro la corruzione politica ed il narco-traffico. Ingrid Betancour, politico d’eccezione poiché alla sua vita tranquilla in Francia ha preferito l’impegno in patria che l’ha costretta a 6 anni di sequestro da parte delle FARC (Forze Ar­mate Rivoluzionarie della Colombia), ma, nonostante l’inferno della giungla vissuta da ostaggio “scomodo”, la fondatrice del Partido Verde Oxigeno si dichiara pronta a riprende­re la sua marcia civile.
All’insegna della non violenza è il modello praticato dal premio nobel per la pace (del 1991), la birmana Aung San Suu Kyi a cui, più recentemente (Maggio 2008) il Congresso degli Stati Uniti ha assegnato la Medaglia d’Onore per il suo impegno in favore dei diritti umani. Questa donna tenace e determinata, malgrado sia tenuta nel regime degli ar­resti domiciliari dal 1989 con poche e brevi interruzioni.
Durante questa lunga detenzione è rimasta vedova, nemmeno i suoi due figli possono an­darla a trovare, eppure l’esimia leader nazionale continua a denunciare, cn la propria pri­gionia, il regime militare che a Myanmar ha tolto la libertà a tutti.
Dalla costanza dello spirito passiamo al “coraggio fisico” di una mussulmana pronta a bat­tersi per non lasciare cadere il Pakistan nel terrore dell’estremismo religioso o talebano che sia; Benazir Bhutto, la figlia del destino, come lei stessa si definiva prima di essere uccisa come accaduto per il padre e successivamente per entrambe i suoi fratelli.
Una donna bellissima, già premier di stato per due volte, tornata dall’esilio per non vedere la sua patria precipitare nel caos della guerra fra laici ed estremisti religiosi, talebani e filo-occidentali. Ironia della storia è stata uccisa nel posto militare più sicuro del Pakistan pie­namente cosciente del pericolo che correva, ma sdegnosamente, col velo bianco sulla te­sta, sorrideva fiera del suo essere attiva, sempre attiva nella politica democratica del suo paese.
Infine, come non ricordare la russa Anna Politkovskaja, redattrice del giornale d’opposizio­ne Novaya Gazeta, con i suoi resoconti degli abusi perpetuati durante la guerra in Cecenia a scapito della popolazione civile. Moglie e madre di famiglia, con la passione, talvolta il tormento, della ricerca della verità.
Un racconto inequivocabilmente doloroso ma necessa­rio al rispetto per se stessi, rispetto della libertà e della dignità umana in forma sia pubbli­ca che privata insieme.
Sfatiamo la favola di Cenerentola che vive in funzione del principe azzurro ed è misera e derelitta senza lui; ai nascituri raccontiamo invece le storie di donne vere, che trovano il loro happy-end nel dare vita e corpo alle proprie aspirazioni, e… Speriamo che sia femmi­na!.

Un nemico del popolo

Il teatro è una forma di comunicazione, il palcoscenico di una situazione vera, dove la ve­rosimiglianza dei casi rappresentati, non è essenziale al dibattito del problema messo in scena.
La scenografia, le parole, i costumi e, perfino, i personaggi sono dettagli, Il significato del­l’opera è dato dal contenuto di verità raggiunto, oppure soltanto cercato, con tenacia ed onestà intellettuale. Almeno questa è la novità del teatro moderno, secondo il maggior criti­co italiano del dopoguerra, Nicola Chiaromonte che indica Henrik Ibsen come capostipite della famiglia di drammaturghi moderni da Cechov a Beckett e Jonesco passando attra­verso Shaw, Pirandello e Brecht.
Il critico “militante” scrive sul merito dell’autore norvegese: “… è quello di aver riportato sul­le scene (per la prima volta, dopo i Greci, benché in maniera assai diversa) il dramma del­l’uomo alle prese con la verità deciso ad andare in fondo alla propria natura, a fare i conti col mondo in cui vive, e quindi a non fermarsi dinanzi a nessun rispetto umano (…)”.
Per questo, il carattere distintivo del teatro ibseniano è il forte accento intellettuale che rompe il possibile equilibrio fra cuore e cervello snobbando ogni sentimentalismo di manie­ra per la­sciare sempre al centro dell’attenzione il problema che ha dato vita al dramma.
Nel 1957, un altro critico italiano, Clemente Giannini, scrive:” Nel teatro ibseniano non sia­mo più dei bravi spet­tatori che uccidono un’ora di ozio con un ameno ed ingegnoso diverti­mento; ma siamo in­vece persone responsabili sedute a teatro”.
Sicuramente, come suggerisce in un saggio James Joyce, per questo aspetto cerebrale che coinvolge il pubblico in riflessioni che arrivano a sommergere la mente fino a torturarla con visioni momentanee di prospettive immense ma sfuggenti, l’opera di Ibsen deve esse­re vissuta nella rappresentazione corale-teatrale e non nella lettura solitaria del testo.
D’altra parte l’arte del garzone di Skien è la drammaturgia non la letteratura, la forma delle sue idee non è definibile in una particolare espressione, nell’analisi di un unico discorso, ma è un complesso di voci e di luci che si annullano reciprocamente per denudare la storia e farci immergere nel dramma.
L’artista ha bisogno di esprimere, incessantemente, le sue idee per non essere roso dal dolore del loro premere sulla coscienza, così possiamo immaginare quanto egli abbia sof­ferto la mancanza di un teatro “indipendente” nella Norvegia del XIX secolo.
Nel 1851, Ibsen assume la direzione del primo teatro norvegese non legato alla corona ed inizia la serie dei suoi lavori maggiori, che, ancor oggi, sono calorosamente applauditi dal pubbli­co. Inutile sottolineare che il discorso non riguarda Taranto, dove oltre al teatro co­munale sembra mancare la voglia d’impegnarsi in considerazioni serie che riguardino la vita tutta e non soltanto le contingenze quotidiane o pseudo tali.
In una delle sue commedie meglio riuscite Un nemico del popolo, il protagonista dot. Stockmann, denuncia, pubblicamente, l’insalubrità dell’ acqua dello stabilimento termale della sua cittadina ma proprio per il suo interessamento sulle sorti della salute dei propri concittadini, ma finisce per essere ac­cusato di voler la rovina dei residenti che lo etichetta­no come nemico. Secondo questa lo­gica il nostro autore liberale è anch’egli un nemico di quel popolo di cui vorrebbe scuotere la coscienza rappresentando la realtà come finzione assurda ed in questo più facilmente accettabile, e come egli stesso dichiara: “Mi sono di­vertito un mondo nella stesura di que­st’opera; e il fatto che essa sia ormai finita, ha creato attorno a me un vuoto, una mancan­za. Il dottor Stockmann ed io ci siamo fatti buona com­pagnia e, per molti riguardi, ci siamo trovati perfettamente d’accordo. Sennonché egli, pur trovandosi alle spalle una testa più disordinata della mia, possiede nondimeno alcune par­ticolarità, che fanno accettare sen­z’altro alcune delle cose che gli escono di bocca. Cose che non si accetterebbero se ve­nissero fuori dalla mia”.