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Michele Pierri, il chirurgo d’altri tempi

Michele Pierri, il chirurgo d’altri tempi

Michele Pierri è stato uno dei migliori chirurgi che abbiano operato a Taranto. Dunque sono emozionata per avere ricevuto dal figlio, Giuseppe Pierri, il testo che riporto di seguito e che lui stesso ha scritto e mi ha incoraggiato a riportare come testimonianza per la memoria degli internauti.

—Non sono molti oggi coloro che a Taranto ricordano Michele Pierri in quello che fu il suo valore professionale di chirurgo, lui che per decenni fu il principale riferimento della chirurgia non solo per la nostra città ma anche per l’intera provincia, almeno nei casi di maggiore rilevanza.

Da quando depose il bisturi sono trascorsi circa sessant’anni e il tempo ha scolorito il ricordo del suo valore e di quell’alone di affidamento e di conforto che si aveva in lui.

Oltremodo modesto, rifuggiva dai ogni accenno di plauso o di lode, la sua figura era carismatica per l’abnegazione e l’umanità che vi trasparivano. Con il sorriso bonario infondeva sempre speranza o conforto in chi a lui ricorreva. Un esempio valga a testimoniare quanta fiducia e quanto rispetto riusciva a riscuotere, come medico e, ancor prima, come uomo.

Tra il finire del 1934 e il principio del ’35, dopo essere rientrato in ospedale da nove mesi trascorsi nel carcere politico, gli capitò di dover operare d’urgenza proprio colui che con la sua delazione lo aveva fatto incarcerare, e che era stato abbandonato esanime all’ingresso dell’ospedale con una profonda ferita d’arma da fuoco. Nonostante i recenti dolorosi avvenimenti, la mano del chirurgo rimase fermissima e il ferito solo dopo si accorse di chi lo aveva operato. Ma quando tempo dopo egli dovette ancora ricorrere ad un chirurgo per un serio intervento addominale, si fece portare nell’ambulatorio privato di nostro padre e supplicò la sua antica vittima d’essere proprio lui ad operarlo, e non altri, nemmeno il primario Magnini che pure era di valore. Sul volto, oltre alla sofferenza gli si dovettero disegnare la speranza e la richiesta d’un perdono, che forse era già intervenuto nel momento in cui nostro padre, nel carcere, si convertì al cristianesimo.

Ma nonostante la fiducia e lo spontaneo affidamento che si avevano in lui, pure gli accadde, erano i primi degli anni ’50, che il suo operato fosse messo in dubbio e che venisse segnalato all’Autorità Giudiziaria. Ad un ferito che era giunto in ospedale con quattro o cinque pallottole ritenute, gliene aveva estratte soltanto due. Il vedere quel ferito gravissimo uscire dalla sala operatoria con ancora proiettili addosso, destò perplessità in un giovane chirurgo lì presente, che ipotizzò una incapacità professionale che avrebbe potuto contribuire ad un possibile decesso, e ne diede notizia alla Procura. Il magistrato, perplesso, chiese l’opinione a due medici stimati. Entrambi gli risposero pressapoco così “Di Don Michele, com’era chiamato nell’ambiente medico, non si discute né la capacità, né la rettitudine”. Ciò bastò per archiviare tanto traballante segnalazione. Gli altri proiettili vennero estratti tempo dopo e solo allora nostro padre, chiamato quel giovane collega, gli disse: “Era necessario limitarsi ai punti vitali, altri traumi operatori lo avrebbero portato in pericolo estremo”.

Alla chirurgia si era avvicinato sin da studente durante il corso di patologia chirurgica. Non contento di ciò che a distanza si riusciva a vedere degli interventi operatori, si era accordato con i portieri notturni. Dormiva in una stanzetta della clinica universitaria e quando c’era un’urgenza veniva svegliato. Un breve scorrere d’acqua fredda sulla testa, il camice indosso ed incontrava “per caso” il chirurgo chiamato ad intervenire. “Pierri, che fai qui?”. “Niente, per un parente ricoverato”. “Beh, vieni a darmi una mano”.

Con il matrimonio nel giugno 1926 si stabilì a Taranto. Nel ’27iniziò a frequentare il nostro ospedale come assistente volontario e nel ’29 ne divenne effettivo in chirurgia. Nel ’32 vinse il concorso da aiuto e dall’aprile del 1940 fino ai primi anni del ’60 resse il reparto di chirurgia come primario, con un impressionante numero di interventi operatori eseguiti in prima persona. Alcuni dati rilevati dal ’44 al ’46 indicano in 1.000 gli interventi di elezione annuali, cioè non di urgenza, e in 300 annui gli apparecchi gessati, numeri che portano a valutare, a fine carriera in almeno 25.000 gli interventi di elezione e in 6.000 gli apparecchi gessati. Ad essi sono da aggiungersi tutti gli altri interventi di urgenza dei quali non esistono conteggi ma che furono certo numerosi e anche di alta chirurgia, perfino arditi. La esecuzione dei molti gessi sotto radioscopia gli causò lesioni al volto e alle mani e da anziano dovette subire amputazioni alla mano sinistra. In ospedale volle essere accompagnato dal primario chirurgo internistico.“Guarda, toglimi queste due falangi”. “Ma… ci sono gli ortopedici…”. “No, no, ti dirò io cosa fare”. Voleva che l’intervento avvenisse secondo un suo proprio metodo; con un ortopedico non avrebbe potuto interferire. Lo ricordo seduto su uno sgabello, con l’avambraccio posato sul tavolo operatorio, che dialogava con il chirurgo.

La sua attività si svolse negli anni in cui la chirurgia classica, quella per così dire pre-tecnologica, era al suo apice, una chirurgia chiamata ad intervenire in ogni distretto corporeo, senza suddivisioni in specialità, senza l’apporto della farmacologia e della straordinaria strumentazione odierne. Una attività, quella di nostro padre, che si svolse anche in anni poverissimi, con uno strumentario minimo, bisturi e pinze, aghi e forbici, una mascherina dove versare l’etere per addormentare il paziente, niente trasfusioni, niente antibiotici. Le siringhe erano di vetro e si bollivano con un sottilissimo filo di acciaio infilato negli aghi perché non si occludessero, i bisturi venivano affilati dagli strumentisti su cocci di creta unti di olio. Durante il periodo dell’ultima guerra nel nostro ospedale mancavano perfino le lenzuola e se ne chiedevano in “prestito” alla popolazione. Assieme alle bende e ai panni, nulla si buttava, si lavavano a mano nei sotterranei, quelli che attraverso un cunicolo portavano all’anfiteatro romano. Un notevole aiutovenne dalle donazioni dell’esercito americano, siringhe da guerra di acciaio, bollitori, materiale da medicazione, disinfettanti… e scatolette di viveri. C’è una stupenda fotografia di fine anni ’40 della sala da pranzo della chirurgia donne, con un pentolone di brodo, scodelle e piatti di metallo e con tutta la povertà di quel tempo. Eppure la chirurgia, proprio perché non tecnologica, continuava ad esprimersi in tutto il suo valore e più rifulgeva la capacità spesso inventiva dei medici. Ho conosciuto, abbiamo lavorato assieme, un invalido di guerra che da bambino raccolse un ordigno. Gli esplose nella mano destra riducendola in brandelli, senza più il pollice e il mignolo. Mi disse: “Meno male che tuo padre mi fece questa pinza”, e chiudeva tra loro le tre dita rimaste. Poteva scrivere, mangiare, manovrare piccoli attrezzi perché nel ricostruire quella piccola mano l’indice venne traslato fino a prendere il posto del pollice, fino a porlo in opposizione al medio e all’anulare creando una funzione prensile.

Tra gli interventi di urgenza occorsi a nostro padre ve ne sono stati tre di traumatologia cardiaca. Uno di essi, nell’immediato dopoguerra, proprio in quel periodo di povertà di mezzi, suscitò grande scalpore per le particolari circostanze dell’accaduto. Nel primo pomeriggio del 9 marzo del 1946 all’uscita dall’arsenale militare l’operaio Vito Addolorato venne pugnalato al petto perché creduto responsabile d’un licenziamento. Fu trasportato in ospedale su una delle carrozze che in lunga fila sostavano lì vicino. Uno sguardo appena al ferito e immediatamente un infermiere venne a casa nostra a chiamare nostro padre. Con una corsa affannosa, due o trecento metri, raggiunse l’ospedale, il piazzale era pieno d’operai, il ferito già sul tavolo operatorio. L’intervento fu rapidissimo, il torace aperto, due costole resecate, il molto sangue raccolto per poi restituirlo, il cuore messo a nudo, rapidissimi i punti di sutura. In meno di venti minuti l’intervento era concluso e si potevano ricucire gli altri tessuti e chiudere l’apertura toracica. Vito Addolorato tornò alla vita di lavoro, fu al porto e poi bidello in una scuola elementare. L’ospedale inviò alla stampa questa descrizione dell’intervento:

“ …[il ferito] trasportato con ritardo in Ospedale, fu immediatamente sottoposto ad un difficile intervento. Il chirurgo Dott. Pierri, con l’assistenza dei dottori Amodeo, Mita, Gigante e Cardellicchio, praticata una incisione lungo il quarto spazio intercostale, nell’articolazione sternale, e resezionata per circa dieci centimetri la quarta costola, provvide a raccogliere in una bacinella sterile il sangue versatosi nel torace, aggiungendovi alcune fiale di citrato di sodio. Una ulteriore incisione verticale ed ancora una resezione di qualche centimetro della terza costola permisero al chirurgo di raggiungere il cuore, che presentava una ferita di quattro centimetri nel pericardio e di tre centimetri e mezzo in tutto lo spessore del ventricolo sinistro, da cui ritmicamente, ad ogni sistole, veniva fuori un getto di sangue. Suturato il miocardio con cinque punti negli istanti di diastole, ed il pericardio con tre punti, l’emozionante operazione poteva dirsi ultimata nel breve giro di meno di venti minuti. Il sangue raccolto, nella quantità di 1200 centimetri cubici, veniva da ultimo filtrato e poscia lentamente iniettato nello stesso paziente, per attenuare le conseguenze della grave emorragia subita. Le operazioni chirurgiche sul cuore sono rare, poiché secondo le più recenti statistiche, si registrano poco più di 500 casi in tutto il mondo … ”

Come sempre la grandezza appartiene all’uomo e non ai tempi. Oggi l’ospedale vecchio di Taranto, sulla viuzza SS.Annunziata alle spalle di via D’Aquino, ha da tempo cambiato destinazione, né avrebbe potuto essere diversamente, e con esso anche quella gloriosa sala operatoria così significativa per Taranto. Questo scritto, sollecitato da cari amici, vuole rinverdire il ricordo di quei tempi e di quel chirurgo.

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