Un vittoriano al Sud
Taranto, Taras, Tarentum; nel 1897 lo scrittore inglese George Gissing intraprende un viaggio nel sud Italia; viaggio raccontato ne: Sulle rive dello Ionio, dove emerge chiaramente il dissidio tra la realtà che s’incontra e l’epopea classica di cui, quei luoghi, sono stati protagonisti.
I miti tramandati e l’incanto da essi suscitato, rimangono, soltanto, ombre indefinite proiettate dai nomi rimasti spogli di ogni significato ed addirittura, piegati con inflessione dialettale come nel caso del fiume Galeso divenuto un non ben identificato Gialtrezze.
Il letterato straniero più volte ripete il nome della città declinandolo in greco e in latino fino all’ipotesi fenicia, questo per scacciare lo sgomento crescente difronte a fenomeni che non sembrano nemmeno naturali; si chiede infatti, quale sia la causa di un tale mutamento, un ambiente svanito dopo i versi di Orazio e le lodi di Virgilio.
La trasformazione del luogo è sbalorditiva, anche, rispetto a quanto raccontato dall’archeologo francese François Lenormant nel suo reportage di viaggio: La Grande Grèce, scritto fra il 1881 e il 1884 a seguito del suo cammino nel sud Italia, esplorazione iniziata proprio a Taranto, itinerario che Gissing ripercorre seguendo fedelmente le indicazioni date dallo studioso francese. Infatti, il prosatore britannico rimane contrariato alla vista dell’Arsenale, la cui edificazione gli impedisce di visitare il sito delle Fontanelle, dove lo zelante francese aveva trovato cumuli di conchiglie di murice, il mollusco dalla cui essiccazione si ricavava una pregiatissima porpora.
Gli antichi fasti della città sono stati soffocati da costruzioni troppo accalcate le une sulle altre sull’isola, un tempo lembo estremo di una penisola violata dall’artificiosità del canale costruito per difesa o per mantenere, più facilmente, il controllo egemonico sulla popolazione.
Tuttavia, l’immagine dell’isolotto, fra mar grande e mar piccolo, è una visione estremamente evocativa, un mondo dimenticato e perso, rintracciabile nelle movenze silenziose dei suoi pescatori, uomini ancora primitivi nei tratti somatici e nella lingua inaccessibile al resto dell’umanità, con parole greche; il tutto quasi per richiamare alla mente le figure disegnate sui vasi della Magna Grecia.
I pescatori sono la vera meraviglia del posto, d’altra parte il merito di questo scrittore inglese è quello di descrivere la forma e l’anima dei luoghi e dei diseredati che li popolano; Virginia Woolf ha dichiarato la propria ammirazione per l’arte di Gissing perché: “solo pochi libri- come quelli di Gissing- sono capaci di trattenere e di restituire il fremito della vita”.
La curiosità del’ intellettuale è appagata dall’incontro con un contadino straordinario per la pazienza dimostra col suo asino, anzi, col suo compagno di lavoro che ad un minuto di faticane fa seguire due di riposo.
Nelle pagine dedicate alla città mortifica la presenza del’ amara constatazione dell’arretratezza culturale che, di fatto, ritarda l’adeguamento dei tarantini alla modernità, gente superstiziosa pronta a prestar fede ai racconti più improbabili su fantomatiche apparizioni divine, gente che non si interessa a visitare il proprio bellissimo museo (sempre nelle pagine di Gissing), gente che trascura i segni della propria storia divenendo l’attore principale di una caricatura a sé stessa.
Forse, questa è una maniera per onorare la tradizione teatrale che qui aveva una piega caricaturale testimoniata dalle splendide maschere teatrali conservate (appunto) nella solitudine delle stanze museali.
A conclusione di una panoramica decadente e deprimente arriva una luce violenta che squarcia ed infuoca il cielo, è il tramonto, esterrefatto il romanziere conclude scrivendo: ”Le mie ultime sere furono rallegrate da bellissimi tramonti; ne ricordo uno in particolare; lo ammirai un ora e più dalla strada panoramica della città insulare. Una luce squisita, dopo he il sole fu sparito , sembrava non volesse spegnersi mai.”
Lucia Pulpo