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Intervista a Raimondo Musolino. La fotografia fra arte e realtà

Intervista a Raimondo Musolino. La fotografia fra arte e realtà

Raimondo Musolino

Raimondo Musolino


La conoscenza e la comprensione del mondo passano attraverso l’esperienza che di esso maturiamo. Ma non possiamo vedere o toccare o sentire tutto e in fretta; il tempo ci aiuta ma consuma e logora la nostra energia… Ascoltare voci interessanti è il miglior stimolo per fare un balzo in avanti sulla strada della nostra audace ricerca.
Uno dei linguaggi usato e abusato per inquadrare il mondo è quello della fotografia, ne parliamo con Raimondo Musolino.

d- Raimondo Musolino è un insegnante di fotografia presso il Dipartimento Didattico della FIAF (Federazione Italiana delle Associazioni Fotografiche), oltre ad essere il presidente del circolo fotografico “Il Castello”, le mostre e i libri fotografici cosa offrono un racconto, la condivisione di emozioni, rappresentazioni di altri mondi possibili, si tratta di un linguaggio o di un’inquadratura della realtà?
r- Come cerco di insegnare nei corsi, la fotografia è rappresentazione, espressione e esistenzialità. Rappresentazione della realtà, espressione di quella realtà da parte del fotografo e esistenzialità del fotografo stesso (si intende tutto il background culturale e le esperienze maturate).

Naturalmente queste cose vengono espresse attraverso il linguaggio fotografia che è diverso dal linguaggio delle parole, infatti letteralmente non c’è nessun equivalente della parola o della fotoarte_2015lettera. Ma diventa linguaggio attraverso quella che si chiama connotazione. Le fotografie connotano sempre qualcosa di diverso dalla denotazione. Singolare è che la fotografia diventi linguaggio attraverso lo stile.
Linguaggio fotografia che non risiede comunque solo nella parte formale e informale, ma che si estrinseca anche nella interpretazione del fruitore.
Fruitore che molte volte giudica senza conoscere. Un mi piace (il like dei social) è il risultato di un giudizio affrettato senza aver saputo appunto leggere il contenuto attraverso la conoscenza del linguaggio. Ecco che leggere libri fotografici o visitare mostre apre la mente e permette di assorbire nuove conoscenze, nuovi punti di vista che servono a sviluppare quel senso critico che serve a vedere la fotografia con occhi diversi. Ma non lasciamoci colpire inizialmente dalle emozioni, rischieremmo di vedere una foto con i nostri occhi e non con quelli del fotografo. Per concludere mi piace però ricordare una frase del fotografo Daniel Blaufucus: “una mostra è qualcosa di temporaneo e geograficamente limitato, mentre un libro può durare e viaggiare!”

d- Oggi anche i cellulari sono macchine fotografiche, e tutti si sentono grandi fotografi premendo un tasto ma chi sono i fotografi e cosa significa fotografare?
r- Ho sempre pensato che non avrei chiesto mai a Picasso che marca di pennelli usasse per i suoi dipinti, cosi non mi interessa molto sapere che Henry Cartier Bresson fotografasse con Leica. Fotografare è altro, è fare selezione, racchiudere in un rettangolo quella porzione di mondo che appaga la visione del fotografo, e che riesce a raccontare ciò che lui vede e noi no. Ecco, quindi, che lo strumento perde

Scatto di Sthephen Shoe

Scatto di Sthephen Shoe

la sua importanza rispetto al racconto. Oggi con gli smartphone si possono narrare anche situazioni importanti, ma ci si può perdere anche in rivoli che con la fotografia hanno poco a che fare. Conosco fotografi che, con lo smartphone, hanno realizzato importanti reportage da luoghi e situazioni critiche. Conosco anche fotografi che usano gli smartphone per raccontare quella quotidianità banale resa famosa da quel grande narratore che è Stephen Shore.

d- I selfie sono autoritratti facili per immortalare e materializzare ricordi volatili. Potremmo pensare ad una forma di pop-fotografia oppure sono solo una forma di mercificazione che con la fotografia non c’entra niente?
r- Quelli che oggi noi chiamiamo selfie sono la derivazione di quelli che una volta venivano chiamati autoritratti. Il primo risale addirittura al 1839, quando Robert Cornelius calcolando approssimativamente l’esposizione di circa 1 – 2 minuti adottò la posa adatta per rimanere il più immobile possibile. E così è continuato fino ai giorni nostri fino a quando, grazie agli smartphone, l’autoritratto è diventato selfie. Una sorta di esercizio vanitoso per liberare nel mare magnum di internet pezzettini digitali di noi stessi attraverso le tribune dei social come Facebook o Instagram o Twitter. Erano gli anni ottanta del secolo scorso e Roland Barthes già scriveva su “La camera chiara”: “Io vorrei insomma che la mia immagine, mobile, sballottata secondo le situazioni, le epoche, fra migliaia di foto mutevoli, coincidesse sempre con il mio io (che come si sa è profondo)…” Sono si del parere che i selfie che spopolano sui social con la fotografia non c’entrino molto,

Robert Cornelius. Autoritratto

Robert Cornelius. Autoritratto

Qualcuno addirittura gioca con i selfie, si ritrae tutti i giorni o quasi per mettere in scena una sorta di onanismo neanche troppo simbolico. Chi mi guarderà? A chi piacerò? La ricerca di una conferma della propria esistenza, segno dell’avanzare di una esigenza di cercarsi.

d- Secondo il sociologo canadese Marshall McLuhan, la fotografia ha l’abilità di isolare nel tempo i movimenti, e sempre per McLuhan, la fotografia ha rivoluzionato il mondo dell’arte perché essendo imbattibile nella rappresentazione del mondo esterno ha costretto gli artisti a competere nella rappresentazione del mondo interno. Secondo lei qual è il rapporto fra fotografia, arte e tempo?
r- Anche qui bisogna fare ricorso alla storia, perché quando la fotografia fece il suo ingresso nell’ambiente sociale accese le perplessità di quella parte del mondo culturale che non capiva le applicazioni di quella scoperta. Invece, fin dall’inizio, quella scoperta liberò i pittori che lasciarono proprio la rappresentazione del mondo perché intuirono che la fotografia lo faceva meglio. Nel corso del tempo da rappresentazione del mondo la fotografia ambiva a diventare forma d’arte, ma un primo stop arrivò nel 1931 ad opera di Walter Benjamin che pose dei dubbi nel considerarla arte in funzione della riproducibilità quasi infinita, evidenziando che la meccanica nulla aveva a che fare con l’arte.
Certo di strada la fotografia ne ha fatta tanta, e molte di quelle perplessità sono venute meno perché negli anni sessanta e settanta molti fotografi hanno esaltato l’aspetto culturale mentre raccontavano il mondo e utilizzando la fotografia hanno espresso concetti, astrazioni e pensieri. “La fotografia come arte”, dice Sasha Stone, “ è un terreno molto insidioso”

d- Il fotografo Amani Willett ha ricostruito un ritratto visivo di un eremita vissuto due secoli prima nelle terre ereditate dal fotografo. Il suo libro fotografico è il frutto della ricerca che il fotografo ha fatto usando immagini e materiali d’archivio, sia del personaggio sia dei luoghi in cui è vissuto. Dunque la fotografia non ha come condizione di esistenza il presente in cui viene scattata?
r- Il presente in fotografia è cosi effimero da essere trascurabile. Il presente è un tempo di 1/125, esaurito questo la foto diventa già passato e paradossalmente futuro per l’applicazione che se ne intenderà fare. Ma la forza della fotografia è anche la possibilità di far rivivere quel presente, cioè quel momento dello scatto, in un futuro nonostante sia passato.
Conosco il progetto di Willet. Mi chiedo quanta reale volontà ci fosse nel raccontare dell’eremita o quale fosse il reale proposito. Se la ricerca sull’eremita non fosse in relazione al padre. Un viaggio tra passato e presente, tra Plummer (l’eremita) suo padre e se stesso. Insomma una lirica sulla separazione dal mondo, dagli affetti e dalla realtà. La fotografia che lega generazioni senza tempo.

Lucia Pulpo

Musolino e FotoArte

Musolino e FotoArte

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