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La Luna fra Ingrao e Calvino

La Luna fra Ingrao e Calvino

Scala per la Luna L’autobiografia di Pietro Ingrao s’intitola “Volevo la Luna”. Il titolo si riferisce a un episodio da bambino e non voleva andare a letto, il padre gli chiese cosa volesse per smettere di ripetere quel capriccio e lui, vedendo la Luna riflessa nell’acqua di un bicchiere, rispose che voleva la Luna.
A me capita di pensare di poterla prendere la Luna, non materialmente, ma quando alzo il palmo della mano verso il cielo della notte, per un attimo, mi sembra di averla presa o di poterla prendere. Illusione, certo, ma meno impossibile che stringere il sole in pugno quando tutto intorno è illuminato.
Questo per dire che, certe volte, mi sembra di poter arrivare a stare bene, come se la meta fosse lì davanti a qualche sforzo di distanza. Poi arrivano le lezioni materiali,

le bollette da pagare che non si preoccupano di bussare, arrivano e rovesciano i piatti sulla tavola.
Mi chiedo se devo smetterla di volere la Luna. Continuo a illudermi? È inutile sognare? Questa è la vita, fortuna o sudore?
Tutta questione di distanza. I sogni, la Luna, mi viene spesso in soccorso il racconto di Italo Calvino: “La distanza della Luna”. Qfwfq ricorda che quando era giovane la Luna era appiccicata alla terra e che sono state le maree a spingerla lontana: “C’erano delle notti di plenilunio basso basso e d’altamarea alta alta che se la Luna non si bagnava nel mare ci mancava un pelo; diciamo: pochi metri. Se non abbiamo mai provato a salirci? E come no? Bastava andarci proprio sotto con la barca, appoggiarci una scala a pioli e montare su. Il punto dove la Luna passava più basso era a largo degli scogli di Zinco.”
Dunque il problema non è sognare e illudersi che sia realizzabile, ma è trovare il posto giusto per salire sui sogni con una scala a pioli (da tenere sempre a portata di mano).
Lucia Pulpo

1 Comment on "La Luna fra Ingrao e Calvino"

    Scrive Mario Pennuzzi su Facebook commentando questo post: ario Pennuzzi Piero Ingrao si è raccontato più di una volta e sempre con lo stesso taglio un altro suo titolo è “Le cose impossibili” una elegia sulla necessità dell’utopia, sulla necessità di gettare il cuore oltre l’ostacolo, sulla necessità di credere e perseverare nei propri obiettivi come condizione indispensabile per realizzarli.Ho sempre amato questa idea , e la amo anche oggi, anche se non sono più sicuro che il mondo vada così:Non varrebbe nulla un successo, una vittoria ottenuta al prezzo di aver perso il fine per cui ci si batte .Quando il nuovo re disse “Parigi val bene una messa” conquistò un regno per se e per molti dei suoi discendenti ma perse per sempre la possibilità di affermare le cose in cui aveva creduto.

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