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Il Paradiso affacciato sull’Inferno – Capitolo quattro

Il Paradiso affacciato sull’Inferno – Capitolo quattro

Paradiso e inferno L’oasi naturale di Peitrasanta ha le caratteristiche del miraggio.
Un’allucinazione invocata dai disperati in fuga dall’artificiosità della civiltà con palazzi alti, strade grigie e tubi di scarico puzzolenti.
Qualunque villaggio turistico ha almeno un telefono, un televisore e un collegamento satellitare. Ad esempio, nelle le isole dove si tenta la sopravvivenza dei famosi attori in disgrazia, anche in quelle, un minimo di contatto permanente (25 ore su 24) è garantito per con-tratto televisivo. Un allacciamento saldo che mantenga in essere la certezza di essere vivi e vegeti anche nel presunto villaggio ante-digitale.

Trascorso un periodo ragionevole, tutto tornerà nel posto e nel tempo giusto. Deve essere così, una parentesi, l’avventura con termine di scadenza indicato sulla copertina del for-mat. Una vacanza con assicurazione…
Il sogno non ha la stessa logica e coscienza della veglia.Peitrasanta non è un villaggio per la sopravvivenza di un sogno, si tratta del sogno stesso che sopravvive come una pianta selvatica ai bordi di un marciapiede della civiltà.
I vacanzieri, sbarcati sull’isola, non si preoccupano della bolletta da pagare, della cucina da ripa¬rare o della polvere da togliere dalle superfici del mobilio; Peitrasanta è un angolo di meraviglia perché staccato dalla monotonia della normalità cittadina. Prendere il tra¬ghetto e lasciare alle spalle l’automobile e la possibilità di an¬dare repentinamente da qual¬che altra parte, serve a concentrarsi sul tragitto presente… non si può far altro che arrivare e stare sull’isola.
A dispetto di tutte le conquiste storiche, qui è la colonia che detta le sue regole ai nuovi ar-rivati e, ne rifiuta le comodità.
La permanenza è permessa solo alla luce del giorno, non ci sono letti, brande e cuscini eccezion fatta per i vigilanti di turno. I bagni sono piccoli e separati dalle docce per non au-torizzare nessuno a lavarsi di nascosto col sapone. Nessun lusso, saponetta o shampoo, questo è un ecosistema mirabolante senza effetti speciali, né coloranti né conservanti per una genui¬na ricetta di felicità.
L’acqua dolce per abbeverare i gatti è fornita dalle cisterne dove viene raccolta la pioggia, e l’e¬nergia per le lampadine e per i frigoriferi del bar è procacciata tramite pannelli solari di¬sposti sul tetto del dormitorio, del bar e sulla guardiola dell’infermeria. L’a¬ria ossigenata è gentilmente offerta da¬gli alberi carichi di pigne e di volatili delle specie più disparate.
Gli uccelli migratori vengono qua a fare l’uovo, non a tutti è concesso un tale privilegio, per le spe¬cie rare Pei¬trasanta è una sosta straordinaria sulla via della loro estinzione.
Forse anche questo tocco di selvaggina selvatica conferisce al luogo un sapore di riserva incon¬taminata dalla tristezza uma¬na.
La fortuna e la beatitudine sono avvalorate dal confronto con situazioni opposte.
La miseria e la dannazione sono rappresentate con tinte fosche, un cielo pieno di nuvole, per attenuare e filtrare la vivacità e la brillantezza della luce solare.
“Guarda, mamma, là in fondo, il cielo non sembra lo stesso che si apre sopra di noi, speriamo non gli vendano il biglietto d’accesso”.
“Buon per noi se tutto quello smog rimane ancorato lì, sai che puzza?”
“Non sembra possibile che sia così scuro e brutto lì e così nitido qui. Eppure deve essere lo stesso cielo, quel¬la sponda è così vicina che sembra di toccarla, qualche bracciata e siamo dall’altra par¬te del creato”.
“Vorresti andare a prendere una boccata d’aria polverosa laggiù?”
“Sai che la boccata d’aria, tutta salute, la prendi normalmente appena torni a casa? Ades-so fai la sdegnosa però non stai in apnea, come un pesce fuor d’acqua, quando vai a fare la spesa al mercato scoperto.”
“Devi sempre dire la tua”.
“Quando sei sotto la coltre di fumo, l’atmosfera opaca diventa una consuetudine tanto da dimenticarne la bruttezza, la sporcizia e la puzza”.
“Tua nonna diceva che quando sei sotto bombardamento pensi soltanto a sopravvivere ed è più facile scappa¬re dalle bombe che ricordarlo e parlarne”
“Sopravvivere… non risolve il problema”.
“Amen. Memento mori. Il pianto fa buon sangue, piangiamo insieme? Veniamo qua per in-camerare l’ossigeno prodotto dai pini, fanne scorta, come un provetto cammello, e poi penseremo a salvare la patria”
“Che spirito altruista! Quelli che lavorano là non vogliono essere salvati. Dicono di non avere alternativa alla morte, o fame o lavoro… è sempre una fine”.
“Tanto per restare in tema lugubre, tutti dobbiamo morire, con queste osservazioni cerchi d’anticipare the End?”
“Che bisogno ho di fare qualcosa? Stanno facendo tutto loro. Non vedi quanta polvere al-zano per farsi vedere meglio? L’importante è che l’acciaieria sforni ferro da dare in pasto ai vampiri più esigenti; se nel frattempo gli operai e i cittadini si ammalano di tumore, leuce¬mia o semplice anemia… pazienza, non si può accontenta¬re tutti!”
“Il nipote della compagna di tuo zio, lavora nel tubificio, sta in cassa integrazione, lo devo-no mantenere, anco¬ra, i genitori, lui moglie e mutuo per la stanza in cui vivono. Credi non sia contento di tornare a lavorare nella fabbrica dei fumi, se lo richiameranno?”
“Credi che io sia felice di saperlo senza arte né parte? Io vorrei fermare quel veleno tossi-co, non voglio intossi¬care lui”.
“Bene, dopo questa botta di vita con banda funebre di sottofondo, possiamo concentrarci su qualcosa di bello? Guarda che conchiglia ho trovato, di madreperla rosa, vedi che sfu-mature. Potremmo bucarla, passare un lac¬cio e potresti appenderla al collo al posto di quell’affare pesante che porti sempre agganciato, pare un cappio”
“Carina, facci anche un fiocchetto col nastro per la pupa di due anni che beve il biberon ma prima valla a cercare lontano da me”.
-Puoi distogliere lo sguardo ma l’inferno lo abbiamo di fronte. Brutto, sporco e cattivo. Gli operai che lavora¬no nella pancia del Drago, non si rendono conto di essere stregati, dan-nati e complici. Se apprezzassero la bellezza del nostro cielo, perché loro vedranno que-sto, come noi vediamo il loro-
D’altra parte del cielo ci sono tre operai indaffarati nel riparare uno dei nastri trasportatori dei parchi mine¬rali.
Il meccanismo s’inceppa a intervalli regolari, rallentando la produzione e il guadagno del boss Ferrovec¬chio e della sua impresa di famiglia: il Drago.
I tre uomini sono più che conoscenti casuali; il più anziano è il pater degli altri due. Tutta la famigliola tenuta unita dallo stesso ideale: “ tutti per un Drago ed un Drago per tutti!”
I figli sono più esuberanti, con capelli lunghi raccolti in codino, uno ha il tanga sotto la tuta, l’altro fa la ceretta sul petto, l’operaio anziano non gradisce molto la moda dei giovani con l’orecchino, ma sul lavoro non conta l’abito.
“Biagio, senti questo ronzio di motorino che gira a vuoto, da dove viene?”
“Mi sembra provenire dal dietro di questo cingolo, ma c’è poca luce, non vedo se ci sia qualcosa che interferi¬sca in qualche modo…”
“A quest’ora c’è già poca luce, però le previsioni del tempo alla radio erano buone; al¬meno non piove. Non è mese di tornado girovaghi… insomma possiamo stare tranquilli”
“Ragazzi, invece di star con la testa fra le nuvole, cerchiamo di trovare l’inghippo che in car¬penteria ci aspetta altro lavoro”
“Papà il cielo non l’ho proprio visto. Il meteo l’ho ascoltato in auto mentre venivo qui a sentire i tuoi brontoli, il meteorologo CORVACCIO non sbaglia mai se lo sai ascoltare bene”
“Una settimana e sarò in vacanza, lontano dai vostri battibecchi continui. Già mi vien il buon umore, andrò in campagna dai miei suoceri, il primo giorno dormirò di continuo fino all’alba successiva, poi mi sazierò di fi¬chi e annegherò nel primitivo fatto da loro”
“Non divertirti troppo, sai sarebbe stressante, potresti finire per accorgerti che fai le stesse cose che faceva il nonno, dopo aver perso la gamba”
“Basta, io penso che il problema sia un rullo slittato che rallenta lo scorrimento del nastro. S’avvia, si blocca, poi riprende a scorrere e s’inceppa nuovamente e regolar¬mente non può essere un ostacolo occasio¬nale”
“Non avere fretta di arrivare a una conclusione. Preferisco stare qui, all’aria aperta che rinchiudermi in offi¬cina col rumore della fiamma ossidrica, fino al prossimo pasto in mensa”
“L’aria a mente fresca sviluppa l’appetito. Stai pensando al pranzo, a quest’ora, sogni il menù della mensa? O sono allucinazioni da deserto nel cervello?”
“Bisogna riempire la pancia per far funzionare il cervello”
“Dimostra che il tuo cervello funziona quanto il tuo stomaco e trova la causa del problema”
“Se fosse una vite allentata? Guardate lì, fra poco esce dal binario”
“Se fermiamo la catena per avvitarla si arrabbiano in centrale, ma mettere la mani a moto-re acceso è perico¬loso e la malattia è aprire le porte al licenziamento”
“Proverò io, non ho ferie arretrate se va male mi faccio due settimane in ospedale ma po-trebbero darmi anche gli arresti domiciliari, così mi riposo un po’ la vista senza vedere le vostre tute”.
“La tua tuta è uguale alle nostre, cerca di non sporcarla di sangue per distinguerti. Domani sarò impegnato al funerale di Vito, non potrei venire al tuo”
“Vito chi?”
“Vito che lavorava all’altoforno con Rino”
“Manca da qualche mese ma, non ricordo che abbia avuto un incidente.”
“No, il tempo di degenerare e via”
“Silenzio, devo contare fra una frenata e l’altra, quanto spazio ho per manovrare il caccia-vite”
“Cof, cof… scusa, la tosse è nervosa”
“Nervosa, stizzosa, sciantosa… ti riduce in cenere, bevi che ti passa”
“Fatto, ora fila liscio, un colpo mirato e passa la paura”.
“A me sembra strano, sarà così facile guadagnarsi la pagnotta oggi? Siamo tutti sotto lo stesso cielo di Vito, ma ora pensiamo agli attrezzi che Lepre ha portato ‘sta mattina dalla cokeria, sono 5 tutti da calibrare”.
“Che dite chiediamo al nastro se trasporta anche noi per qualche km, così evitiamo di con-sumare le gambe?”
“Muoviti. Con tutto il fiato che sprechi potresti gonfiare una mongolfiera, invece di gonfiare la mia testa di stupidaggini”.
“Questo stabilimento è grande quanto una città, perché non costruiscono la metropolitana?”
“Con alle fermate ragazze sorridenti che t’imboccano il caffè!”
“Ragazzi siate seri e concentratevi sul lavoro, che qui continuano a licenziare e se toccas-se a noi, gli occhi li abbiamo già consumati e non riusciremmo nemmeno a piangere”.
L’acciaieria è una missione, una vocazione a cui non ci si può sottrarre.
Lavorare per “il pupo alato” equivale a farne parte, è una precisa indicazione di apparte-nenza, uno status symbol, un sudario da rispettare e osannare.
Il frastuono continuo diventa un ronzio in sordina, proveniente dai forni in cui si depura la ghisa e la si ridu¬ce a bremme e, infine, a tubi di dimensione varia. Qualche volta escono dagli altiforni delle fiammate, dei guizzi di fuoco saltati fuori dal cilindro dell’illusioni¬sta.
Intrepide spie industriali talvolta si uniscono e confondono con gli operai per entrare, gira¬re indisturbate e carpire la formula magica o, il trucco, della trasformazione dei granelli fer-rosi in solide pareti di cilindri vuo¬ti. Ma, i curiosoni sono facilmente riconoscibili per via ocu-lare, non hanno occhi rossi e lucidi e prima o poi alzano lo sguardo verso le stelle e riman-gono impietriti.
La giusta punizione per la loro indifferenza difronte alla perfezione e alla gran¬dezza di questo colosso siderurgico.
Non si aspettano di trovare un tetto sgombro dal passaggio di uccelli inutili, qui non ci sono insetti da caccia¬re, dunque perché mai bisognerebbe allevare insetticidi volatili?
E mancano anche fiori profumati perché l’odore predominante è, e dev’essere, quello del carbone bruciato con una spruzzatina di tanfo aromatico di policarburo.
L’essenza dei pe¬tali colorati provoca il mal di testa e consuma l’aria, secondo studi appro-fonditi per il be¬nessere dei lavoratori l’ambiente deve essere scevro da imput olfattivi. Un posto pulito e confortevole per favorire la coesione e la cooperazione del personale.
Le piante, in loco, sarebbero una distrazione imperdonabile, utili, soltanto, a sprecare ac-qua e concime.
L’acqua potabile serve a raffreddare la ghisa. A farla riprendere dopo le manipolazioni del convertitore, infine per metterla in forma sui carri, prima dell’ultima spedizione.
Acquattati presso i bordi recintati si trovano campetti aridi, con rami curvi sotto il peso della responsabilità di soddisfare la richiesta d’ossigeno avanzata da alcuni gruppi di eco-terrori¬smo d’origine dubbia. Sono facinorosi sobillati e pagati da Dream a future.
Il loro fallimento s’intuisce anche dal colore dei loro tronchi, scuro come catrame scaraven¬tato lì da un’antica mareggiata. I fossili vegetali sono reperti preziosi se custoditi da esperti studiosi di storia, ma lasciati ai margini dell’impero di fuoco,hanno l’aspetto inquietante di scheletri impalati come spaventapasseri per mettere paura a chiunque voglia profanare questo regno.
Gli echi sinistri del vento che sbatte i legni contro l’inferriata, stranamente sono gli stessi chiusi nelle conchiglie lanciate dal mare sulla spiaggia di Peitrasanta.
Suoni imbrigliati nelle chioc¬ciole delle trombe d’Eustacchio.
Quei registratori calcarei sono la testimonianza del passaggio di un messaggero speciale, con passaporto valido per sconfinare in ogni dove.
Il vento corre da una terra estrema all’altra. Un ambasciatore veloce e discreto, sa infiltrar¬si e adeguarsi ad ogni condizione; riesce a trasportare i messaggi più delicati, come car¬tacce e foglie cadute. Solleva i pensieri, accarezzandoli, sussurra alle orecchie degli amanti, creando sensazioni piacevoli, provocando fremiti e brividi, spazza via con impeto deciso gli emblemi superflui come bandiere e vapori. Il vento spinge le vele del carta-marrano accompagnato dai delfini, via dalla costa ferrea verso il respiro aperto del golfo.
I capelli di Ippolita, ormai bagnati, iniziano ad arricciarsi, fra riccio e capriccio, il tocco leg-gero della brezza ha un retrogusto inconfessabile.
Aiace, al contrario, sembra rimanere indifferente come insensibile, anzi rindossa gli oc-chiali da sole per riparare le ciglia dalle lacrime che detergono gli occhi dopo l’incontro ravvicinato con polveri ed emozioni.
Il mite Scirocco di oggi accompagna il ritorno di Hammurabi e dei suoi fedelissimi, dall’iso¬la alla terraferma.
La normalità è reinstaurata, da una parte il Paradiso e dall’altra l’Inferno senza soluzione di continuità, a parte la suggestione impertinente portata dal vento che scoperchia le tombe.

3 Comments on "Il Paradiso affacciato sull’Inferno – Capitolo quattro"

    Lucia, come al solito, mi riprometto di leggere questo 4° capiltolo, domani a mare. Grazie molte e … a risentirci. Leonardo.

    Questo bel romanzo di Lucia Pulpo, impone molti punti di riflessione su cui noi tutti dovremmo soffermarci. Ci mostra un’isola che, malgrado la vicinanza col “mostro”, ha mantenuto intatte le sue selvagge peculiarità,con una strana “divisione” tra il suo cielo terso e quello ben più minaccioso che incombe sul “mostro” stesso. Ci mostra, in parallelo, un micro aspetto del mondo lavorativo di quest’ultimo luogo; non in modo solito e banale come spesso facciamo, vedendo i problemi dall’esterno, con ciminiere e polveri, ma con una luce nuova: Entrando nell’intimo della condizione lavorativa, con i patemi d’animo e le condizioni proibitive dei lavoratori, che si dispongono a delle procedure azzardate pur di non bloccare la “produzione” che metterebbe in forse la loro permanenza in azienda ma, in questo modo mettendo a rischio la loro sicurezza. (Ovviamente ipotizziamo la scrittrice si riferisca particolarmente ai lavoratori delle ditte appaltatrici). Lucia poi, con un serrato colloquio tra la giovane protagonista e sua madre, chiarisce bene da che parte sta, nello scegliere tra un falso dualismo: l’apparente “sicurezza” di un lavoro insalubre e la salute per sé stesso e per la propria sua famiglia. Un romanzo, che tocca molti “tasti” e ripetiamo, offre molti spunti di riflessione. Complimenti Lucia.

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