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Il segno delle idee

Il mio spazio creativo

“Il dentro e il fuori”… a colloquio con Cosimo Schinaia

“Il dentro e il fuori”… a colloquio con Cosimo Schinaia

 9788870189230Il libro “Il dentro e il fuori. Psicanalisi e architettura” (ed. il Menangolo) di Cosimo Schinaia ci dà l’occasione per parlare con l’autore della necessità di una “collaborazione” fra mondo esterno e mondo interno all’uomo, dei legami invisibili fra strutture di calce e costruzioni di “sangue” e del legame con la sua città, Taranto.

 

Prof Schinaia, dove e quando è nato questo raffronto fra psicoanalisi e architettura?

La necessità di un contatto e di una contaminazione feconda tra discipline psicologiche e architettura ha radici antiche e rimanda agli sguardi di me bambino rivolti alle abitazioni che direttamente davano sui vicoli di Taranto vecchia. In via Cava, dove si trovava il mio antico asilo, si potevano scorgere le stanze in cui vivevano, promiscuamente ammassate, famiglie numerose e fin d’allora avvertivo la sconnessione tra l’intenso anelito alla pulizia e all’ordine domestico degli abitanti e l’impossibilità di un’accettabile realizzazione a causa della ristrettezza e dell’inadeguatezza anche igienica degli spazi abitativi. Quelle immagini mi sono tornate in mente quando, durante la mia esperienza come direttore di un ospedale psichiatrico (quello di Cogoleto e poi delle strutture residenziali di Quarto a Genova), quelle primitive e ingenue intuizioni hanno trovato conferma nel prendere atto delle contraddizioni tra spazi che avrebbero dovuto essere di contenimento emotivo ed affettivo e che invece sono diventati spazi di imprigionamento, di esclusione, di azzeramento della libertà. Una porta chiusa a chiave resta sempre una barriera obiettiva e invalicabile. Se una porta equivale a un muro e non a un varco comunicativo, ciò introduce una grave alterazione dei significati degli spazi e degli usi, un’ambiguità semantica che può caricarsi di significati negativi e distruttivi insospettabili.

   Sono stato l’ultimo direttore dell’ospedale psichiatrico di Cogoleto e in un libro (“Dal manicomio alla città. L’altro presepe di Cogoleto”, Laterza, 1998) ho evidenziato specificamente come gli aspetti strutturali rendessero vane le intenzioni terapeutiche, per cui, quei falansteri andavano chiusi, facendo nascere al loro posto, comunità terapeutiche adeguate allo scopo primario, quello della cura. Il modello che propongo per queste comunità è quello del convento con il percorso che va dalla cella, luogo massimamente privato e consacrato allo studio, al raccoglimento e al riposo notturno, al chiostro che, mettendo in contatto il coperto con lo scoperto, funge da deambulatorio e da riparo ed è luogo di conversazione sommessa e intima, di meditazione silenziosa ma collettiva. Quindi si giunge alla sala capitolare, dove si svolgono le assemblee dei monaci, poi alla chiesa, luogo di comunicazione ritualizzata, infine al refettorio, luogo dello scambio ancora ritualizzato ma meno formalizzato, più libero, in un certo senso preludio di una socialità che prefiguri l’esterno, l’uscita mondana dal monastero verso l’aperto della piazza. Si tratta di utilizzare elasticamente diverse partizioni spaziali, in modo da permettere ai diversi linguaggi un’espressione non irrigidita, non irreggimentata a priori da ricettacoli privi di duttilità, consentendo potenzialità espressive e comunicative multiple e liberamente interscambiabili. Nel mio ultimo libro cerco di far vedere come anche gli attuali servizi sanitari, ospedali civili, ambulatori, non rispondono architettonicamente alle esigenze del cittadino malato e anzi spesso non le riconoscono e non le rispettano. Il discorso ovviamente si apre alle case, alle città, alle modalità di esistenza via via diventate più complesse, ma non sufficientemente rispettate da un’architettura e un’urbanistica che dovrebbero avere a cuore il benessere delle donne e degli uomini e che invece propongono progetti sensazionalistici che spesso devastano il territorio, invece che trasformarlo in relazione alle modificazioni storiche dei bisogni materiali e psicologici. 

 

 

Itaca, la mitica Itaca, lei inizia da lì… perché e chi è il migrante?

 

Emigrare vuol dire entrare in contatto con il nuovo, con l’ignoto, con l’altro da sé, farsene attraversare senza farsi assimilare, senza farsi annichilire; vuol dire conservare ben salde le proprie radici senza farsi però risucchiare dall’identità originaria, senza evitare la fatica del lavoro di trasformazione che porta separarsi dall’ovvio, dallo scontato di troppo facili e fisse appartenenze. Si tratta di mettere in atto le necessarie acrobazie per tollerare e magari valorizzare un’ambivalenza tanto insuperabile, quanto feconda, restando in equilibrio instabile sul crinale che separa sicurezza da insicurezza, noto da ignoto, riconoscimento da spaesamento, identificazione con l’origine da identificazione con lo straniero. Il migrante è per sua natura eccentrico, munito di diverse appartenenze, ma che non appartiene in verità a nessuno. E’ partecipe in contemporanea di diverse storie, diverse tradizioni, ma nessuna di queste lo identifica pienamente. Questo continuo andirivieni esistenziale lo rende forse più libero, ma si tratta di una libertà sofferta, ma sempre a rischio del ricatto di una sicurezza il cui prezzo possa essere la rinuncia a parti significative di sé per non sentirsi fuggitivo, esule, espatriato, privo di un’identità riconosciuta.

 

 

Identità, appartenenza confini geografici, fughe necessarie, l’individuo. Come può orientarsi nel suo cammino?

La stella polare credo che possa essere rappresentata dal sentire la propria identità non come un dato a priori, qualcosa di immutabile e fortemente determinato e determinante, ma come una struttura psicologica altamente plastica, che riesca a contenere in sé le esperienze originarie e si lasci modellare dalle nuove, in un continuo lavoro di elaborazione; una struttura che pur restando identica continui a cambiare. Identità e cambiamento vanno visti e vissuti come polarità, estremi di un continuo lavoro di tessitura e ritessitura che possa garantire la stabilità attraverso tutte le trasformazioni implicite nel vivere.

 

Ed è necessario camminare?

Il movimento è stato da sempre valutato come indice di vitalità, di evoluzione, di progresso. Dal pneuma di Aristotele, il soffio che identificava l’anima e metafisicamente l’anima con la vita, contenuto nello sperma e capace di indurre nel nascituro l’eidos, la forma, al panta rei di Eraclito, che affermava che: «Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell’impetuosità e della velocità del mutamento essa si disperde e si raccoglie, viene e va».

   Altrove tuttavia Eraclito sottolineava che v’è un logos, sottostante a questo continuo mutamento, un’armonia profonda che governa in modo oscuro e inconoscibile la perenne dialettica fra contrari, che provoca il divenire perpetuo degli enti sensibili.  Ricordo che psiche per i Greci significa “soffio rinfrescante” e che tale significato si ritrova anche presso gli Ebrei, come testimonia questo versetto della Genesi: ”Il Dio eterno formò l’uomo dalla polvere della terra, egli soffiò nelle sue narici un respiro di vita e l’uomo divenne un essere vivente”. Molto più tardi Lamarck concepì la vita come l’accumulo e l’interiorizzazione continui e progressivi dei movimenti dei fluidi nei solidi, sotto la forma iniziale di un tessuto cellulare.   D’altronde, se pensiamo a come i futuri genitori avvertano l’attività motoria spontanea del feto attraverso la parete uterina come sinonimo di vita e di benessere, che va di pari passo con il giudizio di sanità che viene dato dai medici e a come, al momento del parto, sia il pianto del neonato conseguente ai primi movimenti respiratori a segnalare l’inizio della vita sociale del lattante, ci rendiamo conto dell’enorme significato non solo organico, ma simbolico e culturale che il movimento viene ad assumere. Il piccolo animale, il bambino ha organicamente tanto bisogno di movimento in termini assoluti e profondi, quanto del dormire e del mangiare. E’ necessario che si agiti, che gridi, che respiri violentemente, che si lasci andare alle attività esplosive del gioco. Essenzialmente libera e priva di obiettivi specifici, l’attività motoria spontanea non è sostituibile con un corso di ginnastica o con l’allenamento a uno sport, perché è la sola che precisamente riesca a mettere in gioco tutti i muscoli del corpo in un utilissimo disordine. I primi uomini, partiti dalla Rift Valley, sono andati poi ad abitare l’universo intero e lo hanno fatto camminando. Il bambino mostra tutta la sua felicità quando dal gattonare passa al correre le prime volte dalle braccia della mamma a quelle del papà e ritorno. Una vota che comincia a correre, non smetterebbe più, tanto il movimento gli dà gioia, sicurezza, sensazione di controllo del mondo esterno. Scrive Duccio Demetrio in Filosofia del camminare: Mettersi ed essere in cammino: “Non vi è un’espressione più facile da intendere. Più evocativa e simbolica, persino più sacra di questa. Nessuna è in grado, con la stessa immediatezza, di rappresentare la vita. In ogni suo manifestarsi. Nelle forme biologiche o storiche, in quelle collettive e, ancor più, nelle sfumature più intime e individuali della condizione umana”.

L’architettura costruisce uno spazio fuori dall’uomo perché non vuole rifugi di fantasia come nella fantascienza?

In un certo senso avviene, o dovrebbe avvenire il contrario, è cioè che l’architettura si faccia carico delle fantasie, dei bisogni e dei desideri dell’uomo, che li accolga e, proprio a partire da questi, progetti luoghi abitabili, siano esse case private, edifici pubblici, quartieri, intere città. Psicoanalisi e architettura possono incontrarsi nel pensare e progettare le strutture abitative quotidiane private e pubbliche in modo che la cura della sofferenza mentale da parte degli psicoanalisti, e la ricerca sull’ambiente, da parte di architetti e urbanisti, collaborino, convergendo in una visione comune di quella dimensione abitativa in cui si situa il complesso e articolato intreccio di bisogni biologici e funzioni simboliche che dà origine a una determinata disposizione e utilizzazione degli spazi in relazione con un ambiente costruito sostenibile in una visone generale della relazione tra risorse, individuo e territorio.

 

 

Lei fa tante citazioni interessanti tra cui Italo Calvino: “La città esiste e ha un semplice segreto: conosce solo partenze e non ritorni”. Questo, ahimè, mi richiama la situazione della nostra Taranto. Che futuro c’è per la città?

Effettivamente, sul piano della realtà, io sono un tarantino che non è più tornato, se non per le vacanze e per rivedere i suoi cari. Negli anni alcuni legami si sono mantenuti saldi, altri sono diventati decisamente più laschi. Le ragioni di un allontanamento attengono non solo ad aspetti di ordine sociale e storico, ma spesso anche in relazione ad incontri affettivi, professionali che determinano la scelta del luogo in cui vivere. Personalmente sono rimasto molto legato a Taranto, alla sua cultura, alle sue vicissitudini sociali e ambientali, provando dolore nel vedere da lontano come un grande patrimonio culturale ed ambientale abbia subito profondissime ferite. Penso a me bambino a Chiatona, la spiaggia dalle grandi dune su cui era bello rotolarsi, e che ora col grigio nerastro dei detriti provenienti dall’Illva dà la sensazione di distruzione e di morte. Penso alla foce del Galeso coni suoi salici piangenti, decantata da Virgilio. L’ultima volta che ho portato i miei figli a visitarla, ho pianto nel vederla così desolatamente inquinata e priva dell’antica bellezza. Penso ai tanti cinema di Taranto e all’intensa vita sociale e culturale, di cui ho potuto godere da studente prima dell’Archita e poi del Quinto Ennio. Mi sembra però che anche nelle situazioni più difficili, e quella di Taranto è una situazione molto difficile, sia necessario individuare punti di svolta. Nel sessantotto c’era uno slogan che più o meno diceva: “Siamo nella merda fino al collo e per questo camminiamo a testa alta”. Ecco, Taranto deve camminare a testa alta per liberarsi degli escrementi che l’hanno purtroppo coperta, utilizzando la sapienza dei più anziani e l’energia vitale dei più giovani; deve non assuefarsi a un destino di decadenza, ma ritrovare le antiche radici e scoprire la possibilità di piantare nuovi alberi. Quante volte Taranto è stata ferita, umiliata e quante volte ha avuto la forza di rialzarsi! Bene io credo nella positiva testardaggine dei tarantini, nella capacità di scardinare le antiche rendite di posizione e nella possibilità di resistere alle spinte centripete, al collasso, attraverso la riscoperta delle antiche risorse (il mare, la campagna, la vocazione turistica, l’anima commerciante, la ritualità religiosa attraversata però da un nuovo soffio culturale) e l’invenzione di nuovi momenti collettivi, la costruzione di nuovi sogni, l’espressione di nuovi desideri, la valorizzazione di quell’immenso patrimonio architettonico costituito dalla città vecchia, il progetto del museo archeologico portato a termine, la costituzione di significativi percorsi turistico – folkloristico- culinari). Insomma c’è modo, spazio e tempo per un nuovo rinascimento. Rimbocchiamoci le maniche e guardiamo avanti! Volutamente ho deciso di evitare di entrare nella cronaca delle quotidiane difficoltà, delle differenti posizioni politiche, non perché non abbia un mio pensiero, ma per evitare il facile pontificare di tanti intellettuali che credono di avere sempre la ricetta giusta in tasca, ma possiedono soltanto sicumera. Il mio ha voluto soltanto essere uno sguardo partecipe e sofferto e l’espressione di una speranza di rinnovamento.

Pubblicato su . http://www.affaritaliani.it/puglia/cosimo-schinaia-legge-taranto-l-architettura-psicanalitica.html

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