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Il filo prezioso della speranza

Il filo prezioso della speranza

Leggende parlano di un drappo mitico, una stoffa intessuta con fili lucenti e preziosi come oro, ricamata da abili e sapienti mani; qualcosa indicata come “vello d’oro”, qualcosa di cui erano fatti gli abiti greci chiamati Tarentinidi, indossati dalle mogli di potenti politici e regine perfino l’imperatrice Caterina di Russia aveva i guanti di “seta marina”, a Taranto chiamata “lanapesce”.

Le storie raccontate sull’esistenza di questo morbidissimo tessuto hanno trovato un testimone inconfutabile sepolto in una tomba del IV sec. d.C. Ad Aquicum (odierna Bucarest). Infatti è questa la traccia più antica, ritrovata nel 1978, del panno ottenuto dalla tessitura del bisso. Incredibile a pensarsi, il bisso è il filamento grezzo prodotto dalla Pinna Nobilis Linneo per ancorarsi al fondale sabbioso dove infila la propria “punta”. Questo mollusco bivalve cresce fino ad un metro ed è diffuso lungo poche coste del Mediterraneo come quella della Dalmazia, della Sardegna, di Gallipoli e di Taranto.

Nel nostro dialetto il mollusco è chiamato Parēcedde, dal siriano parscèll che significa “frutto di mare chiomato” ed è il motivo della scomparsa della lavorazione della stoffa lussuosa, pregiata ed ammirata.

Questa stoffa non solo non si tesse più ma nessuno la sa più produrre, almeno qui a Taranto, perché Chiara Vigo, l’ultimo maestro del bisso, vive a sant’Antioco in Sardegna.

Ma il problema è la vita della Parēcedda, infatti la pesca a strascico, più che l’inquinamento, ha notevolmente ridotto il numero degli esemplari di Pinna Nobilis tanto da essere enumerata tra le specie protette in via d’estinzione.

Un esemplare adulto ha un filamento lungo fino a 15 cm, e da 300 grammi di bisso grezzo si ricavano 80 grammi appena di filo buono per la tessitura, questa poi deve essere realizzata manualmente perché il filo è delicatissimo non adatto alle macchine industriali. Neppure se rinforzato con amido, è pssibile lavorarlo industrialmente, prova ne sia la distruzione delle macchine delle “Seterie Sale“ di Como dove nel 1936, Rita del Bene, portò 3500 chili di bisso. Lei morì al suo rientro a casa e portò nella tomba i segreti della lavorazione della “lanugine di mare”.

Custodi della tecnica di estrazione e lavorazione, prima di lei erano state le suore del convento di santa Chiara, poi le sorelle Marasco, infine Filomena Martellotta.

Mentre al problema della riproduzione ed allevamento della cozza si erano dedicati Edoardo De Vincentis ed Attilio Cerruti che con il sovvenzionamento del C.N.R. erano riusciti ad analizzare le fasi di accrescimento e riproduzione della Pinna Nobilis riuscendo anche ad elaborare una tecnica per la tosatura “innocua” del mollusco stesso.

La seconda guerra mondiale ha distrutto e spazzato via ogni velleità imprenditoriale, nelle scorse settimane si è tornato a parlare del bisso e del mestiere legato alla sua lavorazione. Temo siano parole di fumo, ma la speranza di rinascita del nostro artigianato d’eccellenza sono legate a quel fumo con un filo prezioso di seta marina.

Pubblicato su Cosmopolis il 3/6/2012

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