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La dimensione del pianeta “Mathematica”

La dimensione del pianeta “Mathematica”

Anticonformista è una delle parole, più frequentemente, abusate e tirate “per la giacchetta”.
La virtù degli incompresi, quelli che hanno sempre una propria visione del mondo, tanto differente da quella comune da sembrare inconciliabile con la realtà delle cose. Così l’anti­conformista diventa divergente più che stravagante e questo fa paura perché le sue idee sono il primo passo verso un cambiamento che da culturale facilmente degenera in mate­riale.
Al contrario, l’atteggiamento “mimetico” dell’animale che pur di non rimanere isolato dal branco ne segue passivamente tutte le abitudini, il riprodurre le scene consuete non è semplice adattamento alla realtà, questo è conformismo dettato dalla paura di non essere accettato dagli altri, il conformista è schiavo del consenso e non ammette critiche che pos­sano destabilizzare la reputazione faticosamente raggiunta.
Nella concezione romantica di cui siamo ancora imbevuti, l’arte è considerata la patria di questi eroi ribelli che incitano il popolo a superare le certezze confortevoli ed abituali per intraprendere la conoscenza di nuovi mondi, geni intrepidi nel cuore e negli occhi rivolti verso orizzonti di gloria.
Questa però è un’altra storia, fatta d’istrioni che accendono il sen­timento popolare ed furo­reggiano in battaglie immortalate nei ricordi. Rompere gli schemi con cui abbiamo costruito la nostra realtà, oltrepassare la logica dei nostri pensieri per co­glierne la verità, ipotizzare qualcosa senza preoccuparci di quando sarà superata e noi con essa, questa è una storia del pianeta “Mathematica”.
Alcune di esse sono state rac­contate dall’insegnante Edwin A. Abbott nell’Inghilterra vitto­riana, chiusa in un circolo piatto di pregiudizi piccolo-borghesi nei quali sembrava mar­cire e ristagnare tutta l’intelligenza e la creatività della “migliore gioventù”. Rappresentando le donne come linee e gli uomini come figure geometriche diverse per il numero di lati, il rettore della London School, sem­plifica la realtà riducendola su basi geometriche per illu­strala chiaramente:
“Chiamo il no­stro mondo Flatlandia, non perché sia così che lo chiamiamo noi, ma per renderne più chiara la lettura a voi, o Lettori beati, che avete la fortuna di abitare nello spazio. Immagi­nate un vasto foglio di carta su cui delle Linee Rette, dei Triangoli, dei Qua­drati, dei Penta­goni, degli Esagoni e altre Figure geometriche, invece di restar ferme al loro posto, si muovano qua e là, liberamente, sulla superficie o dentro di essa, ma senza potersene sol­levare… Ahimè, ancora qualche anno fa avrei detto: del mio universo, ma ora la mia men­te si è aperta a una più alta visione delle cose”.
Infatti il quadrato protagonista è proiettato verso lo spazio n-dimensionale studiato , negli stessi anni, da Rienmann mentre l’esame di matematica per l’ammissione alle università britanniche era ancora basato sulla geometria euclidea. Il pedagogo londinese affida a Flatlandia la sua satira contro questo cumulo di non-sense in una società che in nome del­la morale si arrocca sulle sue certezze appiat­tendo la creatività ed annullando la curiosità.
Diametralmente opposto a questa logica “moderna” è il libro scritto venti anni prima dal matematico inglese Lutwidge Dodgson, più conosciuto con lo pseudonimo di Lewis Car­roll, che in “Alice nel paese delle meraviglie” cerca di mostrare il proprio sgomento di fron­te ai teoremi ed ai paradossi della geometria non-euclidea che prendeva piede insieme ai numeri immaginari in algebra.
L’insegnante del Christ Church College, anche se intrigato dai numeri senza peso fisico come la radice quadrata di un numero negativo (numeri immaginari appunto), si oppone a teorie giudicate improponibili agli studenti. Alice fa un viaggio assurdo, incontra personaggi bizzarri che la invitano a sragionare, come la regina di cuori.
Alice: ”è inutile che ci provi” disse “non si può credere ad una cosa impossibile”
“Oserei dire che non ti sei allenata molto” ribatté la Regina “quando ero giovane, mi eser­citavo sempre mezz’ora al giorno. A volte riuscivo a credere anche a sei cose prima di co­lazione.”
Un racconto fantastico dove il senso delle parole spesso è espresso dal suono delle silla­be, così il lettore si ritrova a seguire la voce dei suoi pensieri proiettandosi in quella dimen­sione che il conservatore Carroll non ritiene idonea ad uno studente che si affacci ai “mi­steri pitagorici”.
Il problema risulta essere la Mathematica stessa, per quanto essa si avvalga di assiomi, di leggi e di numeri non si ferma lì, malgrado le richieste del Cappellaio Matto, Alice sospira: ”Non posso (restare)…ci sono domande a cui devo rispondere e cose che devo fare”. La nostra forma è conforme alle regole di quale dimensione?

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