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Il segno delle idee

Il mio spazio creativo

Nessun dorma

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Quando ero piccola mi stupivano i racconti della nonna riguardanti la sua vita durante la seconda guerra mondiale.
Bombe, nemici, nascondigli azzardati e fame e mai disperazione.
Ricordi dolorosi, la nonna finiva sempre con le lacrime agli occhi però ripeteva più volte che vivere quelle situazioni era stato meno difficile che raccontarle. Così, in questi anni tri­sti, mi chiedo se ci stiamo inventando un’esistenza estranea alla nostra, qualcosa di cui parlare anche con noi stessi.
I problemi ci sono ma la tendenza generale è drammatizzare (teatralmente), creare un evento spettacolare per ogni momento, magari immortalare l’istante nella Storia, come se questo significasse vincere l’inesorabilità del tempo. L’illusione dell’immortalità dell’uomo e della sua vita biologica è la negazione del senso e della coscienza naturale.
Virtuale non è solo l’amicizia on-line, virtuali sono i pensieri e i desideri che ci passano per la mente senza aver avuto origine da essa.
Virtuale è la vita che imita un film già visto e consumato.
Vogliamo essere i protagonisti della favola anche se quella è stata scritta da altri; come at­tori che interpretano un ruolo importante in una messinscena fantastica, dunque star in un cielo sconosciuto che ci inghiotte come un buco nero.
“Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso. […] è la vita concreta di tutti che si è degradata in un universo speculativo. […] più esso (lo spettatore) contempla meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno com­prende la propria esistenza e il proprio desiderio.” Il regista e filosofo Guy Debord scrive queste considerazioni ne: “La società dello spettacolo” alla fine degli anni ’60 dopo aver prodotto dei film che destassero lo spettatore dal torpore di cui è divenuto preda. Infatti per l’artista francese la spettacolarizzazione dei fatti è un’operazione di marketing per vendere una condizione fasulla allo spettatore-consumatore che baratta i suoi sogni e le sue spe­ranze con le luci della ribalta. Un affare a buon mercato fin quando non si rende conto che su quel palco ci sono soltanto burattini mossi dalla trama del regista.
“Lo spettacolo non è un insieme di immagini,ma un rapporto sociale fra persone, mediato dalle immagini”. La vita come un film per apparire e non per essere. Il dilemma non è più “essere o avere”, l’evoluzione del consumismo ha creato l’esigenza dell’apparire, dunque un Amleto moderno s’interrogherebbe: “essere o apparire?”.
Il co-fondatore dell’Internazionale Situazionista denuncia che il cinema, nella forma attua­le, è il sonnifero di massa con cui i desideri e le menti della gente comune vengono blandi­ti ed annullati dai pochi che detengono i comandi del gioco.
Per interrompere il ciclo perverso dove fine e principio si sovrappongono e si confondono e dove le vittime coincidono con i carnefici di sé stessi, il rivoluzionario Debord propone la psicogeografia e il déturnement. La prima studia gli effetti “ambientali” sull’uomo, cioè come lo spazio in cui viviamo riesca a condizionarci e quindi l’intellettuale pianifica una cit­tà che aiuti l’uomo a scoprire sé stesso con le proprie emozioni.
La Nacked City ipotizzata è composta di case e quartieri costruiti in maniera da stimolare la creatività del cittadino che abita lì. Imput non percorsi preconfezionati e surgelati. Il pun­to di vista di un artista deve servire a sollecitare il pensiero di chi fruisce dell’opera d’arte. In questo senso l’arte è sovversione della realtà, mentre la meraviglia e la spettacolarità sono lo specchietto per quei sudditi che non devono spezzare le catene che li legano al mondo in cui sono nati.
La rottura col cinema “classico” è consacrata dall’introduzione della tecnica di détourne­ment (estrapolazione) ovvero una sequenza fatta da immagini prese da film già visti e mi­schiati ad altre per creare un nuovo racconto che dia a quei fotogrammi un significato di­verso da quello standard.
La logicità della serie d’immagini non è scontata. Lo spettatore non subisce passivamente il frame ma s’impegna a ricostruirne il senso, interpreta e re-interpreta le associazioni fra le forme e i contenuti degli impulsi visivi ricevuti dallo schermo.
Questo metodo è stato riutilizzato da Enrico Ghezzi in Blob, un programma televisivo quo­tidiano, dove le citazioni vengono dal piccolo schermo stesso, quasi per rompere la mono­tonia e la banalità delle registrazioni da cui sono estrapolate.
Il raffinato cineasta italiano non si ferma alle critiche mosse da Debord all’artificio dello spettacolo, Ghezzi ci avverte che la tecnologia sta manipolando lo spazio filmico con l’in­venzione della terza dimensione (il 3D). Dopo aver perso la personalità, l’uomo perde an­che la propria corporeità trasformandosi nello schermo su cui la farsa prende forma: ”Sia­mo diventati noi (nel 3D) lo schermo. Noi siamo il buco nero verso cui si proietta il mondo, noi per lo spazio di uno spettacolo giochiamo il ruolo impraticabile (…) dell’immagine-schermo.”
Per arrestare questa deriva basterebbe stare attenti a non confondere i ruoli e provare a stare svegli per vivere la vita e non sognare di farlo.

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