Un nemico del popolo
Il teatro è una forma di comunicazione, il palcoscenico di una situazione vera, dove la verosimiglianza dei casi rappresentati, non è essenziale al dibattito del problema messo in scena.
La scenografia, le parole, i costumi e, perfino, i personaggi sono dettagli, Il significato dell’opera è dato dal contenuto di verità raggiunto, oppure soltanto cercato, con tenacia ed onestà intellettuale. Almeno questa è la novità del teatro moderno, secondo il maggior critico italiano del dopoguerra, Nicola Chiaromonte che indica Henrik Ibsen come capostipite della famiglia di drammaturghi moderni da Cechov a Beckett e Jonesco passando attraverso Shaw, Pirandello e Brecht.
Il critico “militante” scrive sul merito dell’autore norvegese: “… è quello di aver riportato sulle scene (per la prima volta, dopo i Greci, benché in maniera assai diversa) il dramma dell’uomo alle prese con la verità deciso ad andare in fondo alla propria natura, a fare i conti col mondo in cui vive, e quindi a non fermarsi dinanzi a nessun rispetto umano (…)”.
Per questo, il carattere distintivo del teatro ibseniano è il forte accento intellettuale che rompe il possibile equilibrio fra cuore e cervello snobbando ogni sentimentalismo di maniera per lasciare sempre al centro dell’attenzione il problema che ha dato vita al dramma.
Nel 1957, un altro critico italiano, Clemente Giannini, scrive:” Nel teatro ibseniano non siamo più dei bravi spettatori che uccidono un’ora di ozio con un ameno ed ingegnoso divertimento; ma siamo invece persone responsabili sedute a teatro”.
Sicuramente, come suggerisce in un saggio James Joyce, per questo aspetto cerebrale che coinvolge il pubblico in riflessioni che arrivano a sommergere la mente fino a torturarla con visioni momentanee di prospettive immense ma sfuggenti, l’opera di Ibsen deve essere vissuta nella rappresentazione corale-teatrale e non nella lettura solitaria del testo.
D’altra parte l’arte del garzone di Skien è la drammaturgia non la letteratura, la forma delle sue idee non è definibile in una particolare espressione, nell’analisi di un unico discorso, ma è un complesso di voci e di luci che si annullano reciprocamente per denudare la storia e farci immergere nel dramma.
L’artista ha bisogno di esprimere, incessantemente, le sue idee per non essere roso dal dolore del loro premere sulla coscienza, così possiamo immaginare quanto egli abbia sofferto la mancanza di un teatro “indipendente” nella Norvegia del XIX secolo.
Nel 1851, Ibsen assume la direzione del primo teatro norvegese non legato alla corona ed inizia la serie dei suoi lavori maggiori, che, ancor oggi, sono calorosamente applauditi dal pubblico. Inutile sottolineare che il discorso non riguarda Taranto, dove oltre al teatro comunale sembra mancare la voglia d’impegnarsi in considerazioni serie che riguardino la vita tutta e non soltanto le contingenze quotidiane o pseudo tali.
In una delle sue commedie meglio riuscite Un nemico del popolo, il protagonista dot. Stockmann, denuncia, pubblicamente, l’insalubrità dell’ acqua dello stabilimento termale della sua cittadina ma proprio per il suo interessamento sulle sorti della salute dei propri concittadini, ma finisce per essere accusato di voler la rovina dei residenti che lo etichettano come nemico. Secondo questa logica il nostro autore liberale è anch’egli un nemico di quel popolo di cui vorrebbe scuotere la coscienza rappresentando la realtà come finzione assurda ed in questo più facilmente accettabile, e come egli stesso dichiara: “Mi sono divertito un mondo nella stesura di quest’opera; e il fatto che essa sia ormai finita, ha creato attorno a me un vuoto, una mancanza. Il dottor Stockmann ed io ci siamo fatti buona compagnia e, per molti riguardi, ci siamo trovati perfettamente d’accordo. Sennonché egli, pur trovandosi alle spalle una testa più disordinata della mia, possiede nondimeno alcune particolarità, che fanno accettare senz’altro alcune delle cose che gli escono di bocca. Cose che non si accetterebbero se venissero fuori dalla mia”.
1 Comment on "Un nemico del popolo"
mia Cara Lucy,
palcoscenico o non, mi rendo conto che le maschere in tutti i luoghi (di lavoro e non) sono sempre tante, ognuno recita un ruolo che gli si addice meglio o che gli altri han deciso per lui, triste e’ quando non ci si riconosce e si vuole andar via…dire quello che si pensa non sempre è ben accetto,perchè non lo si vuole ascoltare o non si sa cosa rispondere. quindi mi sono convinta che ci sono palcoscenici dove le maschere sono d’obbligo e altri dove tutto puo’ essere piu’ libero e spontaneo, confondere i piani è deleterio, meglio tenerli separati!baciotti Lady Oscar