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Il segno delle idee

Il mio spazio creativo

Un sogno

Un sogno

Mi sono svegliata soddisfatta, appagata dal sogno che ho fatto dormendo; non so se capita normalmente di svegliarsi col sapore, in bocca, di un sogno appena sognato, che sia un incubo o una corsa sul prato, spesso i sogni influenzano l’umore del primo piede che tocca il pavimento.

Riconosco un vago sorriso nell’espressione incerta del mio volto, non ho ancora verificato allo specchio, gli occhi sono, probabilmente, semi-chiusi sul cuscino e per questo ingenuamente felici, inconsapevoli di quanto è accaduto e potrà, nuovamente, accadere.

Questo sogno mi è piaciuto, cercavo proprio un po’ di riposo dalla salita, abbagliata dalla luce accecante del sole.

Una fatica rimanere con gli occhi bene aperti davanti ad un panorama di guerra, dolore e menzogna, sarebbe meglio non vedere tanti inganni per illudersi che non ci siano trucchi, ma il sottofondo allucinante c’è, nonostante un’aria nebbiosa, incerta ed opaca, che confonde la vista, so cosa c’è sulla terra.

Cammino distante dal pascolo e dai recinti dei campi coltivati, il profumo dell’erba verde addolcisce la solitudine del cammino, tuttavia, la luce m’inonda e mi accalora, così mi conforta scorgere l’entrata di una caverna, a ridosso della roccia di un colle, immagino che possa essere pericoloso ma, entro volentieri per trovare riparo.

La conoscenza è una salita che richiede fiato ed allenamento; un respiro sano capace di incamerare ossigeno per non sovraccaricare il cuore di desideri. Non basta, la salita si dirige verso un fuoco sacro ed eterno che abbaglia gli sprovveduti se osano volgervi lo sguardo. È necessaria un’esercitazione che filtri ogni diramazione e riflesso di quella fonte. Un’interpretazione di segni eseguita, anche, con un approccio diretto che educhi i piedi a procedere con costanza, uno dietro l’altro.

Questa che ho trovato, non è una caverna grande, non c’è posto per animali rabbiosi e smaniosi di sangue, una piccola apertura nel pavimento cela, sicuramente, il segreto di questo rifugio fresco e silenzioso.

Un’entrata grande quanto una fessura, solo questo mi è concesso, la mia irrazionalità mal volentieri si piega ad indagini razionali per stabilire un equilibrio virtuoso favorevole al dominio della verità sulla realtà, così capire e collegare i fatti, è un privilegio del tempo e di una buona memoria.

La curiosità non m’interessa, né ho alcun’Euridice da riscattare… povero Orfeo perché tentare la morte? Un oscuro gusto per l’avventura mi spinge a calarmi nel desolato buio di un fosso dimenticato.

L’amore per la conoscenza è un desiderio che spinge alla ricerca pur senza ricompensa, i saggi non bramano elogi, né temono la perdita d’alcun compenso, curiosa la passione che stravolge le acque chete.

Inizia l’incantesimo perché: l’oscurità di questa discesa sembra brillare come velluto liscio che ti accarezza la pelle.

L’inizio di un canto improbabile, con spiriti che ti accompagnano ed un qualche ricordo che ti guida attraverso sensazioni già vissute ma, indimostrabili.

A tentoni, ho l’impressione di localizzare, davanti a me, un drago, uno di quelle uova gialle covate nel letame, col corpo squamoso ed alito di fuoco, non è figlio di Gea né ha tante teste come l’idra, è un soldato semplice, come me, lo hanno messo qui e fa il suo dovere… quello di aspettarmi.

Combatto, illuminata, a volte, dai gemiti del mio rivale.

Il drago difende il linguaggio del mondo che lo ha creato; egli stesso è un segno di questo linguaggio, un segno tangibile, non un significato ipotetico.

Vorrebbe essere altro, senza troppa convinzione di quello che è, un ostacolo od una prova, una pedina od un nome per dimostrare, ai pavidi, d’essere tali.

Quest’avversario è più grande di me, sarà più forte, nella mano stringo la lancia giusta per sfondargli il cranio mirando agli occhi, lo uccido.

Mi spiace infliggergli il colpo mortale ma, non avrei potuto continuare il mio cammino, col pericolo di lui, in agguato, dovevo affrontarlo, rivedo gli occhi rassegnati e lucidi e quasi lo accarezzo come fosse un cucciolo, doveva mangiarmi ed io l’ho giocato.

Il dovere è una legge, comporta sacrifici, sottrarsi non è una risoluzione solo, un ulteriore prova di resistenza alla propria ragione.

Infine, un sospiro, affrontare una battaglia non assicura la vittoria, e quasi per proteggere il vantaggio brucio quel che rimane di un corpo inerme. Il fuoco è freddo, azzurrino come sostenuto da gas e, forse, piange come i miei occhi in onore di un rivale leale.

Impaurita da quel silenzio riprendo il cammino, incredibilmente confortata da pareti di roccia, come di quarzo con puntini scintillanti e ballerini. Uno spettacolo animato per lo stupore dei bambini.

Arrivo in una sala ampia, chiara come se fosse illuminata artificialmente, senza finestre, aperture, spifferi d’aria, né lampadine, neon, fiaccole. Le pareti, il soffitto, il pavimento, tutto riflette un chiarore senza ombre in una struttura semplice ma, di cui mancano le parole.

Chissà, un archeologo entrando per la prima volta in un ritrovamento sigillato dal tempo, cerca un collegamento con la propria realtà per non avvelenarsi col profumo di aromi sconosciuti e lontani.

Il salone è pieno di statue enormi, in marmo bianco, su alti piedistalli regolari dello stesso materiale e uniti alle statue per formare un’unica idea di perfezione.

La pietra è solo una pelle liscia aderente e discreta come una cipria su un viso pulito; i capelli e le vesti sembrano ondeggiare e vibrare al soffio leggero di una brezza marina.

Davvero imponenti nella serenità dei loro gesti, tutta l’aria è assorbita dalla loro materia fino a sospettare che anche la luce sia una loro emanazione personale.

Le statue sono disposte in ordine, birilli in un gioco, a me, sconosciuto.

Qui è una Venere, tanto bella da riscattare i sospetti di tradimento, induce a dimenticare le accuse da perdonare, e qui c’è la giustizia, certo è la sua statua, fra le principali, l’uguaglianza, la geometria, e questo giovane? Davvero apprezzabile per i muscoli, i piedi puliti e profumati.

In questa stanza sono le forme ideali, corrispondono alla realtà tutta.

Nessuno sa che sono giunta qui, e qui potrei restare a guardare esseri immobili e straordinari nella loro disumanità.

Nulla di meglio che, interrompere questo flusso di morte, gettare a terra tutta questa perfezione statica e irreale, che soffoca, perfino, le mie aspirazioni.

Allettata dall’eco del rumore, che potrebbero fare all’arrivo sul pavimento, entusiasta di portare scompiglio in quella precisione, calcolata ed inscrutabile, sperando che quest’azione possa cambiare le regole della realtà di fuori, do una spinta, neanche sorpresa dalla facilità con cui muovo blocchi enormi di chissà quanti secoli.

Carte alzate che si abbattono una dietro l’altra, si demoliscono reciprocamente, in un felicissimo domino, vedo rotolare teste e braccia ma senza fare confusione o baccano.

Avrei pensato di me, una contemplatrice, non certo un politico praticante, ma a me, proprio questo gioco non piace e per cambiare regole bisogna prima cancellare le vecchie idee.

Tutto questo movimento, questa polvere, mi mette ansia, un caos di devastazione ed anarchia che non permette lo svolgimento di un respiro costante e cerco un’uscita, le pareti sono continue, né mi volgo verso l’entrata quando un braccio che rotola a terra m’indica, inconsapevolmente, una porticina mai usata con le ragnatele, buia ma non cieca, uno stanzino non catalogato… corro.

Una corsa affannosa, come se l’uscita stesse per chiudermi dentro le viscere della terra.

Lo spazio è poco, si respira odore di terra bagnata e non c’è luce, forse qualcosa come un riverbero di un buco.

Sono al fondo di un pozzo; un vecchio pozzo di campagna abbandonato, nemmeno troppo profondo perché, vedo luce, in cima.

Sicuramente, questa è la via per la salvezza ed averla trovata è sintomo di guarigione!

L’atmosfera è, nuovamente, naturale, un chiarore solare che degradascendendo fino a toccare terra.

Salire, arrampicandomi alle pareti a mani nude, non è la mia specialità, ma restare a guardare l’uscita, non è consolatorio, allora provo la prima, la seconda, la terza.

Nessun gradino, ma qualche appiglio c’è, come i paletti che gli alpini piantano per le corde, quando scalano le montagne, l’ho visto, qualcheduno c’è, magari se riuscissi, mentre salgo, a far dei piccoli solchi per i piedi, basterebbe superare i primi metri che poi si impara. Infatti, strano a dirsi, so perfettamente dove e come aggrapparmi, se avessi studiato il percorso precedentemente, non avrei avuto altrettanta sicurezza.

Bastano i primi metri, per trovarmi in cima, toccare il cielo con la mano ed uscire dall’ombra di solitudine segreta, per cogliere un papavero in un campo selvatico.

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