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La danza folle della libertà

La danza folle della libertà

Prima le Menadi, le baccanti, poi le “tarantolate”, donne straripanti di spirito alla ricerca disperata della divinità.

La danza folle della libertà

La mania dionisiaca era il mezzo per onorare la divinità della vita stessa, l’entusiasmo d’essere vivi e la gioia di poter rinascere ogni giorno.

Il 60-70% della ceramica, ritrovata negli scavi a Taranto, reca raffigurazioni di Dioniso, un giovane in lussuose vesti orien-taleggianti, oppure immagini ricche di simboli che rimandano a lui, direttamente: un occhio o una maschera barbuta inco-ronata da una ghirlanda di tirso e bacche; si tratta di terracotte, vasi, crateri per il vino, coppe per banchetti consumati o figurati e ben auguranti.

Fin dall’età arcaica, in tutta la Magna Grecia ed a Taranto, in particolare, il culto di Dioniso era particolarmente “onorato” con feste rituali che sorpresero e stupirono, anche, il filosofo greco Platone, fermatosi in città, ospite dall’amico carissimo Archita, e da questo salvato dalla prigionia in Sicilia.

Platone, in seguito assunto come il filosofo della razionalità, discepolo di Socrate e, dunque, figlio dello spirito apollineo, solare, idealmente opposto a quello animalesco degli istinti oscuri e nascosti rappresentati, nella Grecia del IV sec. a.c., dallo spirito dionisiaco, proprio questo filosofo idealista scrive: “A Taranto, nella nostra colonia, ho potuto assistere allo spettacolo di tutta la città in ebbrezza per le feste di Dioniso, nulla di simile accade da noi.”

Il culto dionisiaco ha origine nelle tribù della Tracia ma, probabilmente, risentì le influenze di feste orientali più antiche, ad esempio, le Sacee di Babilonia.

Dioniso era il dio greco della vegetazione, della foresta e della fertilità; nato due volte perché il padre Zeus lo strappò dal grembo materno dopo averne fulminato la madre Samele, per far sopravvivere il feto, lo cucì nella propria coscia, da qui il mito di Dioniso come dio della rinascita celebrato, originariamente, come il signore dell’albero (secondo la definizione di Plutarco), il principe del rinnovo stagionale e della fecondità sia animale che umana. Col tempo, però, Dioniso fu sempre più associato alla vite ed al vino, all’ebbrezza e disinibizione che il vino causa; così divenne il dio dell’emancipazione, dell’esuberanza, della liberazione da ogni regola e coscienza, un dio che esige l’estasi dei suoi fedeli, e la conseguente soppressione delle costrizioni e dei limiti quotidiani dell’esistenza.

Il culto di questo dio, “elargitore di gioia a profusione” (Esiodo), era praticato soprattutto dalle donne, come un tentativo di purificazione dell’anima dando sfogo a tutti gli eccessi che la inquinerebbero, offuscandone la capacità di scegliere il be-ne, nella vita diurna.

Infatti, i thiasos (i cortei) si svolgevano di notte fino alla prima luci del mattino, fuori città, nei boschi, i partecipanti, in pre-da all’estasi o al delirio provocato, non solo, dalla musica e dai balli frenetici ma, anche, dall’uso eccessivo di vino, si uni-vano materialmente ed idealmente col dio fino a sentirsene parte, o com’è stato sottolineato più tardi negli studi tedeschi della fine del XIX sec. d.c.: la febbre, la mania, la follia erano il mezzo con cui portare alla luce, “partorire”, la divinità ma-scherata nel proprio istinto.

Dioniso ha insegnato all’uomo i segreti dell’uva, come coltivarla e, poi, come mischiare il succo dell’uva con l’acqua, pro-prio per questi suoi insegnamenti divenne una delle divinità principali del pantheon greco.

Una ricostruzione del rito religioso, che si concludeva con orge dove al dolore si sovrapponeva il piacere, in una confu-sione totale, fra promiscuità gratuita e violenza furiosa, un’approssimazione credibile di come si svolgeva la festa consa-crata al dio, la ritroviamo in: Psiche, culto delle anime e fede nell’immortalità presso i Greci, di Erwin Rohde.

I misteri dionisiaci erano celebrati nell’oscurità segreta ed incantata dei boschi fuori le mura della città, per creare un’atmosfera magica, di trepidante attesa e di richiamo, per attirare il dio Dioniso che, voleva essere evocato, una caccia dove, il cacciatore si confondeva con la preda e il sogno con la realtà.

Il primo segnale d’inizio del rito era dato dai tamburi, un battito cadenzato, ritmato che, lentamente, diveniva più concitato e smanioso, un eco lontano di squilli di cennamelle bronzee, raggiunto, dopo poco, dal suono cupo, di strumenti a fiato, corni e flauti. Al corteo prendevano parte menadi (o baccanti), satiri e sileni, donne con maschere, sul capo corna d’animale e, vesti fluttuanti e lunghe, dette “bassare”, con pelli di volpe su pelli di capriolo.

Figure fascinose, con i capelli sciolti e scarmigliati, disposte, anzi, vogliose di perdersi nell’abisso dell’oscurità, rischiarato appena, dalle fiammelle tremolanti di fiaccole accese per l’occasione.

Una schiera d’invasati che, si abbandonava a corse sfrenata, danze vorticose, agitate e scomposte, movimenti esasperati per sfinire ogni forza fisica, vittime di un’incontenibile eccitazione che, superava l’energia corporea permettendo, così, all’anima di unirsi col dio.

Una presenza misteriosa, quella di Dioniso, che c’è ma non si rivela, se non a festa inoltrata, fra corse, rincorse, acroba-zie varie e grida di giubilo, un ritorno alle origini animalesche, una schiera di selvaggi che, consumavano pasti di carne cruda, quella degli animali immolati al dio.

Fra questi fanatici, scompariva ogni divisione di classe, schiavi, padroni ed i loro desideri, donne con l’anima erano tutti, solo parte del dio che, libera la coscienza dalle responsabilità, ognuno con lo spirito pronto ad un nuovo mattino ed al suo destino ineludibile.


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